Gianni Cossu – L’ UNO E L’ ALTRO

 

 
 

I

Perché
tutto quel fracasso, quel ciondolar d’anni e danni?

Perché
tu dell’Altro cercavi la compagnia:
fosse il lutto o il passeggio, la battuta di spirito o lo spirito di corpo, il
battito lieve, di soppiatto, a piedi scalzi di neve, delle palpebre di un cieco
che s’immagina…che immagina se, nel suo chiuso buio, faticare con la slitta dei
sandali del francescano in un cader senza posa di farfalle… in un vorticar
d’ali e polline e farinose sabbie.

 

II

Poi
e quindi e intanto gli Insomma si incrociavano a trivi, ai dividendi… al
conoscere tutti per stretta di mano: il banchetto, la visita di leva, la posta
senza bandoliera, in breve, a quell’Altro
che mai era in casa, ma sempre e solo una macchia d’ombra in montagna o
nell’ultimo libro che te lo raccontava. Quell’Altro che mai ti veniva a trovare a te che eri l’Uno, sebbene sentissi tuonare le nocche
al portone la notte, ma dietro mai v’era nessuno oppure solo l’Uno: quel te che bussava e scappava e lo
vedevi sul Pino beffardo gridare: “Mare! Mare! Mare!”

 

III

E
anche quando l’Altro, quel che
cercavi, non lo apprezzavi o ti era nemico oppure lo guardavi  dall’alto, come fossi il suo secondino nel
Palazzo di Carte in un passare di “Punto!” e “Rilancio!”.

E
all’alba chi era uscito dal cerchio (con un saggio “Passo la mano”) vi portava
il caffè a Te e a quel Cuoco che avevi cotto a puntino. Anche quando vincevi,
intendo, e guardavi quegli occhi che mettevano in fila gli zeri sulle labbra o
su una cambiale, anche allora che annusavi la cenere come il fuoco quando,
finito il lavoro, si fuma il suo sigaro disteso sull’orlo del suo vulcano. Anche
allora scoprivi che l’Uno e non l’Altro (quell’Altro che ti lasciava la trattoria, i figli, il maiale, il campo di
fave sul tavolo) ti aveva beffato  e che
divenivi ricco con Assi e con Coppe del tuo, di ciò che già avevi perché avevi
giocato con Te, con l’Uno e non l’Altro, quell’Uno che moltiplicavi, ma non potevi dividere. Insomma non c’era
nessuno a sparare, non c’era nessuno a giocare, non c’era nessuno oltre Te e il
formicolare di mille non Altri da te,
tutti specchi e un medesimo pozzo…

 

IV

Così
quando ancora nuotavano gli anni, io intendo dire, come naufraghi senza riva in
esodo sul fondo del mare, sul fondo che in fondo ti bastava sol quello:
scalciar dalla nave che affonda (o riemerge dal fondo) legati a catena i tuoi Te clandestini, ma ti bastavan
l’affogare continuo, le giostre inchiodate alle bare, i cimiteri di impossibili
guerre, ti bastavan come l’orme di gesso avvolte in un panno trovate di un
Minotauro, di un Fauno, una Ninfa che gocciola resina dall’anca colpita del
tronco di un Pino in cui s’è mutata….

 

V

Insomma
ti bastava la lotta o l’andare di corpo, ti bastava qualcosa, ti bastava sapere
che c’era un Prossimo tuo che non fosse l’Uno,
ma l’Altro, un qualunque Altro o un unico Altro, anche uno solo che non fosse di te il seme o il frutto, ma
un simile o l’opposto, di qualunque fattezza e postura, ma Altro comunque e dovunque oltre i tuoi desideri e i tuoi peggiori
auspici.

Ci
fosse insomma e restasse, anche segreto e nascosto, ma vero, veramente vero e Altro da Te a soffocarti con il cuscino,
a farti morire per rinnovar la condanna dell’Uno e dell’Altro.

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