Ozioso quel pomeriggio, come solo quei
languidi giorni di luglio possono offrire, vento tiepido che scosta le tende in
damascato rosso.
Gracchia il citofono e immancabilmente si
sente il tonfo plastico della cornetta che si stacca e finisce sul pavimento,
spargendo quel suono fastidioso per tutto il corridoio, amabilmente
ribattezzato “CORSO CARRAPIPI”.
Barcollando, tanto per il torpore
pomeridiano, quanto per la bionda gelata, arrivo e raccatto da terra il
ricevitore, quattro piani più in basso nell’ombra dell’ingresso qualcuno dice:
“Cerco il nero!”.
Distrattamente chiedo chi lo cerca e cosa
vuole, ma so già che tra un po’ la domanda sarà “Quanto ti serve?”, giusto il
tempo che Bradipo, così dice di chiamarsi, arrivi su con quel catorcio d’ascensore.
Lo faccio entrare e mentre lo conduco nella
stanza gli chiedo chi lo manda.
“Eddy Punk”, è la sua risposta. Intanto che
blatera qualcosa circa i disegni alle pareti e del caldo della giornata,
farcisco un tubo di quella buona e lo spedisco in cucina a prendere altre due
bionde… non ho idea di chi cazzo sia questo individuo.
Si beve si fuma si acquista si saluta e dopo
meno di mezz’ora il languore domenicale può lentamente rimpossessarsi del mio
cervello.
Un pomeriggio come tanti, uno come tanti che
ti chiede un po’ di rossa calabra.
Un periodo costellato di incontri frugali,
serate passate ad aspirare smaniosamente la vita, un turbinare incessante di
acquisti, trasferte, visite e serate in locali piccoli pieni di fumo e caldi
Talmente caldi che la birra diventa un
surrogato del brodo della nonna dopo 5 minuti che l’hanno cacciata dal frigo,
una calura satura di sudore tabacco e bestemmie, musica rombante e alcool
sparso un po’ ovunque. Poi il rientro in quel micro habitat ritagliato
nell’indifferenza e nel cinismo di un appartamento nel quale regna
l’opportunismo e la morale più ottusa.
Tempo andato che di tanto in tanto riaffiora
nei ricordi che nascono sospinti dal vino e che spiccano il volo da bocche
fetide di salsiccia e fagioli. E spunta fuori ogni tanto quell’enorme vaso per
conserve sempre pieno di “rossa”, che fungeva dal self service. Accanto ci
trovavi sempre qualche biglietto del treno e un pacchetto di OCB nere, chiunque
voleva estraeva una cima e cominciava a farcire piccoli miracoli avvolti in
cartine di gomma arabica purissima.
Quella specie di nascondiglio di trentasei
metri quadri strappato alla normalità di esistenze in continuo progredire verso
l’homo cinicus ne aveva viste
parecchie di serate meditabonde al lume di candela e nottate trapuntate di
orgasmi, singhiozzi, pianti e risate isteriche.
Su quei muri erano impresse le ombre di un
volto che davano forma ad una fisionomia ripetuta più volte fino alla perdita
totale di ogni segno di umanità, era il ritratto sincopato della bestia libera
e affamata di vita che in quel tempo non mi sognavo di domare.
Sacchi neri trasportati in uno zaino sotto un
sole imperante, si lasciavano dietro distanze fatte di case assolate, scalinate
in rovina, asfalto appena steso odoroso e molle, angoli traboccanti di urina
disseccata e su tutto aleggiava l’odore di quell’erba miracolosa che copriva
tutto e si spargeva ovunque, il problema era entrare in ascensore, dove quella
fragranza figlia dell’emancipazione, perseverava nel suo lavoro di saturazione
per ore e ore.
Poi la scelta delle cime migliori che
andavano a rimpinguare la scorta nella boccia, e poi l’estrazione paziente di
tutto il residuo dal fondo del sacco e il paziente lavorio per dargli nuova
vita e a lavoro finito prendeva il nome di polline o fumo o hashish o quello
che vi pare, Lavoisiere sarebbe orgoglioso della trasformazione avvenuta.
Continuava intanto il pellegrinaggio
incessante in quella specie di piccola bottega del paradiso artificiale:
amicizie nate e morte o solo nate, conoscenze fugaci, i grass’s friends. Tutto composto di un tiepido sortilegio chimico
che avviluppava una schiera di esistenze con diramazioni trasversali,
propaggini lussuriose e tentacoli opportunistici. Di quel periodo molta gente
non la ricordo nemmeno, forse erano troppi? Forse il tetraidrossicannabinolo ha
operato una sorta di formattazione o forse non me ne fregava un cazzo di niente
e di nessuno.
“Il nero ha l’erba buona, il nero costa poco,
il nero ce l’ha sempre, il nero qui, il nero lì”.
Ma intanto fumavo gratis e guadagnavo qualche
euro, a conti fatti ben poca cosa in confronto ai rischi, ma continuavo a
fumare l’esistenza altrui, vivevo quel tempo scandito dall’acquisto succhiando
letteralmente l’esistenza dagli occhi del coglione di turno, non mi importava
l’individuo in se, ma quello che le sue fessure esistenziali comunicavano,
occhi vispi e indagatori, occhi spenti e morti, occhi che fiutavano lo spazio
dando impulsi alle labbra che scandivano domande su questo e quello, occhi
socchiusi di chi salpa in un viaggio fra gli anfratti dei suoi ricordi.
Si, di esistenza ne ho vista e assaporata
tanta, ma i nomi sono solo un orpello in tutto ciò, solo un indice
bibliografico, un titolo sospeso che può solo alludere a quel ricordo ma non
precluderne l’intensità.
La profondità che quel tempo forniva alle
riflessioni di una mente, nella quale la ricerca dell’esistenza emanava i suoi
primi vagiti non è facile da spiegare nemmeno a me stesso, non è semplice
delineare con poche pennellate gli infiniti scenari che si formavano ogni
stramaledetto giorno che si affacciava su questa città, straniera, terribile e
calda.
Non è semplice ma nemmeno necessario. Ne
raccolgo i frutti ora. Adesso. Alcuni secchi e avvizziti, altri maturi e
dolcissimi, altri marci e odorosi di colpa e tradimento, ma questo non cambia
gli eventi già andati, non cambia i ricordi e le impressioni, può solo
imbarbarire il presente se si cerca di far finta di nulla.