O una
giostra o una scala di corda, con i nodi faccio l’asola all’abito bianco nel
granaio dei fiori d’arancio,poi vestita di rughe e lo scialle accompagno lo
sposo disteso all’altare, poi lo porto all’unica Tanca dove le pecore guidano
il cane e impastando il pane mastico i rovi che dicono facciano bene,li mastico
e li sposto da una guancia all’altra e le edere crescono mute sull’uscio di
ardesia, il focolare, le chiacchiere delle gente dalle scarpe verniciate.
Poi sposto da un occhio all’altro le spine delle cateratte dal dondolo che mi
culla la lingua, ed il tempo e i due prigionieri (tra ciglia di salice) si
guardano: allora ancora mastico il rovo e se il mio abito bianco l’ha preso
l’unica figlia di lui per andare distesa a trovarlo a me resta il granaio dei
semi d’arancia che sputo come rondini tra le stoppie prossime al fuoco di
quell’ultimo ceppo che brucia e che fu quel grande olivastro, curvo come una
donna prossima al parto, in cui mi nascosi a sedici anni e dove s’impigliò
chissà quando e perchè, tragica cuccagna, un bianco paracadute ricamato.
Gianni Cossu ( Cartoline da Fernandea)
15/02/04