Gianni Cusumano – TRE FISCHI

Alla radio dicevano che gli eroi

erano appena scesi in campo.

La temperatura era piacevole.

L’orologio segnava le 4 del pomeriggio

ma si non si sudava mica

in sud Africa.

Fuori dalla fabbrica

invece

c’era abbastanza acqua

da dissetarlo tutto,

quel continente di colore.

Al pranzo

ci pensarono le donne.

Le mogli degli operai

erano le migliori

in fatto di pranzi domenicali.

Quelle che s’erano date veramente da fare

erano impegnate a spartire

decine

di porzioni

di pasta al forno.

Qualcun’altra,

per lo più

donne che non nutrivano alcuna fiducia

nei loro uomini,

se l’era sbrigata

con una semplice

insalata di riso.

Ma si sa,

quando fa caldo

e senza futuro,

ci si accontenta di tutto

pur di mangiare.

Alle birre,

invece,

c’avevano pensato i maschi.

Come da tradizione.

Quando gli eroi

smisero di stonare l’inno nazionale

lo striscione era già bello che steso.

Su, c’era scritto:

“LA NAZIONALE GIOCA. NOI VOGLIAMO LAVORARE.”

Conoscevo poeti

che avrebbero volentieri

venduto l’anima al demonio

per un verso

sincero come quello.

Poi

alla radio

il cronista disse che gli avversari

erano passati in vantaggio.

Lo sportello spalancato

della vecchia Fiat

di un metalmeccanico

rimasto cieco d’un occhio

ripeteva le stesse parole allarmate:

“IL NEMICO E’ SOPRA DI UNO! IL NEMICO E’ SOPRA DI UNO!”

e tutti gli operai

gli si fecero contro,

coprendo ogni centimetro d’aria disponibile

per sentire da vicino

le parole della voce metallica.

Era vero,

si era sotto di uno.

Ma non era poi così importante

se paragonato al futuro.

Alla notizia del vantaggio,

nel cortile della fabbrica,

qualcuno bestemmiò.

Altri,

semplicemente,

tornarono a reggere lo striscione.

Ce n’erano almeno 6 metri da stendere

e servivano UOMINI per farlo.

Poi,

dall’altra parte della strada

oltre il cortile,

come in simultanea

cominciarono a parcheggiare

dei grossi furgoni colorati.

Avevano dei simboli

e dei numeri impressi sulle fiancate

e c’erano antenne e

dispositivi di ricezione d’ogni genere

a tappezzare quei tettucci.

Le donne, frattanto,

avevano già ripulito tutto quanto:

piatti,

bicchieri,

posate,

tutto.

Nemmeno una cicca

avresti trovato

sul cemento

di quel cortile.

Si disse che erano giornalisti,

quelli nei furgoni,

ed era cosa buona

perché sarebbero scesi

a far domande

e risposte era quello che avrebbero trovato.

Intanto,

brutte notizie arrivavano dalla Fiat.

La Nazionale era riuscita a insaccare un punto

– per cui s’era ancora in gioco –

ma l’arbitro aveva annullato tutto.

C’era stata una scorrettezza

nell’azione

e immediatamente

era stata punita.

Molto fiato era stato sprecato.

Non se l’aspettava nessuno,

quella palla aveva davvero bucato la rete.

Anche il vecchio cieco

ci avrebbe scommesso gli occhi.

Ma poco importava:

c’era da andare avanti.

Gli operai stesero lo striscione

e il primo giornalista

corse a piazzare il microfono

sotto quei musi sporchi di sugo.

Poi fu il turno del secondo.

Poi toccò al terzo.

Poi al quarto

e altri ancora ne arrivarono

armati di gelati magnetici,

coi loro registratori digitali

e domande innocue

e c’era solo da rispondere

SI o NO

e molti operai dissero di SI,

e molti altri,

invece,

dissero il contrario.

Nessuna buona

giungeva

nel frattempo

dalla Fiat.

Gli avversari avevano raddoppiato il distacco.

E del padrone della fabbrica

s’erano perse le tracce.

Molti di loro,

molti degli operai

tifavano per la squadra del padrone,

anche se non amava farsi chiamare “padrone”, lui

ma

“Amministratore Delegato”.

In ogni caso

s’era sotto di due

è questo era quanto.

Quando

a una domanda

un operaio non rispose

né SI né NO

la Nazionale

finalmente

andò a segno.

Non era stata una risposta da vincitori

certo

ma la palla era entrata

e aveva fatto tremare la rete

come si doveva.

Si stava perdendo da schiavi,

e qualcuno lo disse anche.

Ma mancavano pochi secondi

e alla fine

l’arbitro fischiò 3 volte.

Fuori!

Gli eroi piansero

stringendo l’erba del prato

di Johannesburg.

Piansero e andarono via.

E una volta entrati negli spogliatoi

gli eroi

piansero ancora.

L’indomani

avrebbero rimesso le mutande in valigia

a sarebbero finalmente tornati a casa

a godersi fiche e miliardi,

dimenticando in fretta tutto.

Poi

i giornalisti

misero in moto i furgoni

e andarono via.

Le mogli degli operai

sonnecchiavano

stese sul piazzale della fabbrica

mentre il vecchi cieco

si faceva riaccompagnare

alla sua macchina.

Qualcuno avrebbe guidato per lui,

come sempre.

Forse non il sindacato,

forse non il partito,

forse non il popolo,

ma uno schifo di cane bastardo,

sicuro,

gli sarebbe toccato.

Lo striscione fu riavvolto

con cura,

magari lo si conservava

per la prossima

cassa integrazione

poi

tutti a casa

a seguire i processi

alla Nazionale.

Intanto

quel giorno

i sacrifici dei padri

morivano al sole

di un estate troppo fredda

per essere

il sud Africa.

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