EUTANASIA PATOLOGICA –Hasael–

 

post post..

Un drappo, liso e marcescente, pigramente dondola nel vento.

Un istante, un’immagine scorta quasi di sfuggita lungo la statale, che si ripropone nitida e placida tra una boccata di narghilè e un chiassoso discorso polistrumentale su crisi, urbanistica, musica e salsicce polacche.

Melassa gusto cocco e thc fanno il resto, le immagini strappate a fugaci occhiate incastonate nella memoria inconscia si susseguono cavalcando le increspature di un discorso affollato, a tratti inconcludente. Attimi di stallo semantico vengono colmati dall’idiozia in libertà vigilata, sputata con la cadenza di un fucile d’assalto, da una bocca troppo usa ad orazioni orfane di significato, costruite con un vocabolario tanto misero da sopravanzare il fastidio.

L’indagine sul “tipo”, l’essere medio, l’uomo qualunque, si tinge di toni asfittici quando trova l’essere perfettamente mediocre, inabile al ragionamento, incapace di staccarsi da quel maledetto senso comune.

Il mio rancoroso rimuginare si arresta sull’inutilità dell’odio verso questa creatura inutile, troppo puro questo sentimento per sprecarlo con chi non sa nemmeno odiare.

Queste lande pigre, simulacro sterile di un passato glorioso infrantosi sotto il suo stesso peso, continuano a macinare operosità, senza operare una continuità produttiva tra ciò che era e ciò che è. Ancora sbronzi non si rendono conto che la festa è finita; restano solo macerie e un grosso conto da pagare. Non c’è consolazione nel far finta di odiare finti colpevoli, non c’è sazio nel cercare di stanare un capro espiatorio che punta le zampe, non comprendendo il perché, dopo una vita misera di calci e sputi, ora lo si voglia condannare a morte. La ricerca dell’altro cui affibbiare il conto è assai vana.

Altro giro di narghilè altro thc a dar manforte al pensiero, altro tabacco a rafforzare il sapore di catastrofe in bocca, la serata prosegue scossa da atomi di coscienza libera, troppo piccoli per sfuggire alla gravità della situazione. Stanza in penombra, esistenze limitrofe nella comune vicinanza al fastidio, con un chirurgo pazzo alla tv che toglie nei imperfetti con un trapano da carpentiere, animosa allegoria di luogo nel quale si cerca di assaporare l’esistenza negata togliendola ad altri, un turbine di invidie e delazioni, contrappuntate da una insana sete di santa giustizia forcaiola.

A grappoli cadono, falcidiati dalla nera mietitrice, torchiati a caratteri cubitali nella cronaca di periferia, ogni paese ora ha la sua disgrazia da sbandierare, tra un suicidio rocambolesco e una famiglia sterminata dalla follia del non aver più nulla, ci si sente meno periferici in quanto molto prossimi al centro dello scarico. Notizie che non suonano più squillanti come prima, siamo alle serie dalla serie, siamo alle storie parallele di una storia già inflazionata e ripetuta, siete in ritardo i morti della vostra disperazione non se li fila nemmeno il tg regionale.

Indietro anche con la disperazione, una disperazione che non penetra più in quanto non c’è rimasto nulla da penetrare, tutto disfatto, lercio e dissolto, delle solide sicurezze rimane un brodo mefitico di esistenze distillate, rancore e slancio suicida.

Si diradano gli astanti, si dilegua anche il chirurgo, sostituito da una splendida vetrina di aggeggi domestici made in USA, inutili come ogni prodotto che si ostinano ad esportare, primo tra tutti la democrazia. L’inutilità si dissipa cavalcando la sua auto made in Italy, rimaniamo noi, quattro rancori seduti ad un tavolo, in una stanza invasa dall’invadenza americana, sparata da un buon catodico Olandese. Si placano le mascelle, si affievoliscono le increspature del non sesno, tutto assume una tonalità di promettente e radiosa serenità. La bandiera stinta che penzola da un’asta in pvc rimbalza tra la retina e un senso dello stato in agonia; l’erba alta, il cancello chiuso, i vetri sporchi, il piazzale assolato e muto, rimandano l’eco di un oblio cominciato due lustri addietro, quando doppiato l’apice della ricchezza, si sono accorti di andare contromano.

Uno schianto lento e melmoso, uno sparo al rallentatore, un’agonia infinita, un acquario di melassa color seppia che inghiotte tutto.

Ma almeno siamo noi, quattro, soli; non si parla di futuro, si evita il presente, si supera il passato, si analizza l’istante, il gesto.

Non siamo gente dedita al lamento, siamo solo quattro menti pensanti, a quattro passi dal nulla che incombe.

 

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