Gianni Cusumano: LA VERGINE NON È MAI STATA UNA BUONA AMANTE

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Prendi un foglio bianco

macchialo di cenere e vino

e racconta a tuo padre

di quella volta che il tuo sogno più grande

non superava i 200 metri quadri di un appartamento in centro.

Raccontagli della donna più degna di te, sorridente in
cucina

mentre allatta il figlio del tuo contratto a tempo
indeterminato.

Di quando la felicità

aveva lo stesso odore dell’antipulci del tuo cane in
giardino,

e il futuro era un’immagine ad alta definizione

proiettata dallo schermo piatto in soggiorno.

 

Prendi un foglio bianco

macchialo di cenere e vino

e scrivi a tua madre

di quando le ambizioni che avevi erano solide

come le case che avresti costruito per la gente del mondo.

Ricordale di come il suo sorriso pubblico era così luminoso

da offuscare la tua immagine allo specchio.

Dille che suo marito sta fumando la pipa seduto davanti al
camino

della casa di legno che hai costruito per loro,

e che nella nuova camera da letto

perfino alla Vergine Maria verrebbe voglia di far l’amore.

 

Prendi un foglio bianco

macchialo di cenere e vino

e fa sapere a tuo padre e a tua madre

che il tuo sogno più grande ha superato la data di scadenza

chiuso dentro una scatola di biscotti, nel tuo monolocale di
periferia in affitto.

Racconta loro che l’angolo cottura

è troppo piccolo per l’indegna madre di un bambino a
progetto.

Che non hai mai sopportato i cani

e che la tv in bianco e nero non ha mai smesso di non
funzionare.

Scrivi che le case che hai costruito sono crollate

seppellendo la gente del mondo nella polvere

e che, dopotutto, la Vergine Maria non è mai stata una buona
amante.

 

Prendi un foglio bianco

macchialo di cenere e vino

scrivici su la lista della spesa di oggi e una preghiera,

e torna a dormire.

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LUCA “Zio Skanf” SCANFERLATO – Pelle di Rinoceronte




 

Quello che vedo

quello che sento

è acido e indigesto

ed io somatizzo

non c’è senso

non c’è soddisfazione

non lo digerisco

ed io rigurgito.

 

Come la pelle del rinoceronte

così ruvida e brutale

ma così delicata e sensibile

mi rotolo nel fango per proteggermi

vedi la crosta che mi ricopre

ma non vedi le mie ferite

che sanguinano sotto la superficie

così mi proteggo dai parassiti.

 

Non lasciare che la vita ti scorra addosso.

 

 

Non lasciare che la vita ti scorra addosso

come un rottame che scivola sul fiume

senza meta e senza scopo

o al momento del trapasso

non noterai alcuna differenza.

 

 

 

 

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CGB: Buio nella luce

 

Succede così senza pensarci troppo
forse un po’ di vento fa risuonare
le nuvole, forse perchè a volte sembra
buio anche quando fuori è giorno.
sembra buio anche quando è giorno

Succede così che non mi spiace sentirmi
abbandonato tra polvere e zanzare
un rassicurante tepore mentale
come una malinconica melodia mi tiene
compagnia.

Fuori sembra buio
anche se invece è giorno.

Chiuso dentro un sacco a pelo
evitando il confronto, dentro la
mia testa è un posto migliore
spengo la luce.

E’ buio anche se
fuori c’è il sole.

 

(il brano è contenuto nel nuovo disco: Morte di un Microfono)

Antonio Cardia: LISA DELLE MIE METASTASI

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Lisa mi
lasciò e la cosa per me non fu troppo strana. Niente era strano in quello che
era successo tranne il fatto che le mie gambe si allontanarono da lei con una
velocità di cui non erano abituate. Lei prese un autobus, la vidi sedersi sul
sedile e tenersi la pancia, come in preda a coliche, portando la testa
all’indietro.

Lisa fu una
di quelle storie che diventano molto più importanti quando finiscono che quando
sono ancora in corso. Durante il mese che ci frequentammo il mio coinvolgimento
nei suoi confronti si era sempre mantenuto al di qua della pericolosa linea
emotiva oltre la quale si intravede il profilo dell’innamoramento. Lisa, non ho
mai capito fino a che punto fosse arrivata, in quel mese.

I problemi
vennero dopo.

Già la prima
notte non riuscivo a dormire e dovetti prendere un sonnifero. Non mi era mai
successo prima. Sono sempre stato abbastanza regolare. La mattina dopo non
riuscì a svolgere le mie consuete funzioni fisiologiche e stetti male tutto il
giorno come se qualcosa di dovuto non fosse stato svolto.

Le giornate
mi passavano veloci. Il lavoro era noioso ed umiliante come sempre, ma sembrava
che terminasse ogni giorno prima per fare in modo che mi trovassi in casa, da
solo, a pensare. E pensavo a Lisa.

Le domeniche
erano anche peggio. Non lavoravo e avevo tutto il tempo per pensare a lei. Mi
era entrata all’interno dopo. Quando era mia era sempre stata una cosa esterna,
altro da me e lontana dalla mia biologia.

Iniziai ad
uscire da solo, sempre sotto la pioggia dato che i fatti si svolsero a
febbraio, e ogni sera tornavo a casa sempre più ubriaco. Fumavo duemila
sigarette e sembravo uno di quegli stupidi disperati da film. Stavo diventando
uno stereotipo, ma bere non mi aiutava affatto a dimenticare. Ad ogni sorso
vedevo Lisa davanti a me e il whisky me la spingeva più in fondo, dentro le mie
viscere ed ogni boccata di tabacco me ne faceva riempire i polmoni della sua
immagine.

Esattamente
dopo trenta giorni da quando vidi Lisa per l’ultima volta cominciarono i primi
sintomi.

Giravo
sempre tutta la notte prendendomi tutta la pioggia di questo mondo ed il vento
che i vicoli della città mi gettavano contro, ma non mi era mai piaciuto
vestirmi troppo pesante così, sulle prime, il dolore al petto che mi avevo lo
scambiai per un dolore intercostale provocato dal freddo che inevitabilmente
prendevo. Per scacciarlo accendevo una sigaretta e espandevo al massimo i
polmoni per aspirare il fumo. Dopo un paio di boccate il dolore scompariva.
Mentre aspiravo pensavo sempre a Lisa e ficcarmela dentro i polmoni aiutava a
dilatare la mia cassa toracica maggiormente. Mi accorsi anche che cominciavo a
rantolare di tanto in tanto, come se mi si fosse fermato a qualcosa nella
laringe, ma anche quello lo attribuii al freddo.

Mi convinsi
di questo fino al giorno in cui, seduto alla mia scrivania, sul posto di
lavoro, il dolore fu talmente forte che non riuscii più a respirare. I miei
colleghi dovettero chiamare un’ambulanza. Mi dissero in seguito che ero
diventato cianotico.

Il medico mi
sottopose ad una radiografia toracica e mi disse quello che, dopo l’incidente
sul posto di lavoro, avevo cominciato a pensare anch’io. Avevo un cancro ai
polmoni al quarto stadio, con delle metastasi nella parte inferiore che avevano
attaccato anche le pareti dello stomaco. Mi mostrò le radiografie e mi fece
vedere le macchie scure nella parte basse dei miei polmoni. Macchie informi che
potevano rappresentare qualsiasi cosa, ma io le seppi leggere come un test di
Rorschach.

Il medico mi
fece portare a casa le lastre, non mi volle ricoverare, non so bene per quale
motivo. Quella notte misi le lastre davanti a me con una lampada dietro. Le
macchie scure si stagliavano ed io lo vidi in ognuna di quelle, camuffato come
un messaggio subliminale: il volto di Lisa.

Lisa era
dentro di me, mi stava scavando.

Dalla
mattina dopo presi ad osservare qualsiasi mia eiezione in cerca del suo volto
ed ogni volta mi appariva lucido, nelle mie feci, nel muco di ogni mio
starnuto, negli sputi sanguinolenti ai quali la malattia ogni mattina mi
obbligava. Cominciai a sentirla dentro di me. Cellule maligne di Lisa che
lasciavano la base dei miei polmoni, dove io le avevo spinte, e navigavano nei
miei vasi linfatici cercando nuovi approdi, cercando di conquistare più
territori possibili.

Dopo
un’altro esame approfondito il medico decise di ricoverarmi. Le metastasi erano
estese. Il medico mi disse che avrebbe potuto operarmi, cercare prima di
ridurre la loro portata con dei farmaci che avrebbero aiutato il mio
metabolismo a combattere le cellule tumorali per poi asportarle, ma non aveva
ancora afferrato il punto. Lisa era ormai il mio metabolismo.

Nel letto
d’ospedale rimanevo sveglio, con gli occhi chiusi, a pensare al suo corpo che
lentamente prendeva possesso del mio interno, dei miei organi vitali e mi
masturbavo a questo pensiero. La possessione erotica totale, l’essere
totalmente annientato dal suo volto scolpito nelle masse tumorali. L’idea che
il medico volesse asportare quello che lei aveva creato dentro di me, l’idea di
perderla ancora, proprio adesso che piano piano stava riuscendo a radicarsi nel
mio interno era insopportabile. Dovevo oppormi…

 

Adesso sono
collegato a macchinari di cui ignoro il nome e l’utilizzo. So soltanto che
fanno per me le funzioni fisiologiche di cui Lisa si è impossessata. Ancora
provo degli orgasmi all’interno dei miei organi ad ogni sua nuova espansione al
mio interno. Quando avrà preso possesso anche della fisiologia dei macchinari
sarà finito. E Lisa sarà capace anche di questo. Già il macchinario alla mia
sinistra trilla tre volte più spesso che due giorni fa.

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Parole Accese

(Il presente è l’articolo di Francesco Villari tratto da InScena Magazine del Marzo 2008.)

 

 

 

 

Le
parole si accendono allo sguardo. Gli occhi come piromani della mente riescono
ad accertarsi che le parole possano prendere vita. Ecco la naturale necessità
di concretizzare una considerazione. In un Paese di santi truffatori e navigatori
satellitari che disconoscono il Maestrale ci resta solo l’approccio onesto con
i poeti: coloro che intendono proporre e rivendicare  in qualità di mandanti  la libertà delle parole, incastonando gli
accenti e le espressioni affinché la comunicazione in senso esteso possa
realmente far parte del quotidiano in tutti i suoi aspetti e nelle forme in cui
si manifesta. Le parole sono un peso che va portato con orgoglio. Meritano di
viaggiare serenamente attraverso gli uomini ed il tempo.

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Ho tagliato
la testa al toro. Ho quasi raggiunto la meta, sognato di segnare cinque punti
con un corpo ed una testa da lanciare per perfezionare il punteggio. Nessun
peggio, certo. Solo le quattro prese che coordinandole funzionano. Era ora.

E
adesso, cosa chiama cosa ma il caso chiama a caso, ecco la volontà di
rimpinguare l’omissione di soccorso con una difesa reale di quanto
effettivamente fattibile. L’affetto che provo si ferma alle righe, sulla
squadrata concezione che in figura soddisfa solo se alimentata. Nonostante la
pancia piena, il palato è su una testa calva che non si accontenta. Come deve.
Come sarebbe giusto pretendere. “Prendi i bollori e scappa!”. Una parrucca
pensata per non pensare alla calvizie che avanza ma che in fiera, in un
ipotetico sud-est primaverile, torna assolutamente viva nella testa in festa.

Pochi
passi. Altamente consigliato sentire il vento tra la finta per definire vero il
falso. Le sensazioni non si giocano a poker. Le mettiamo sul tavolo per
scrollare l’interessante ed allevare, alleviare e ricondurre l’intenzione di
uscirne ad una sana scommessa su se stessi. Sporchi perché tra e sabbie mobili
ci han già provato ad uscirne.

L’altra
sera ho richiamato Arnie ed Arnie non ha risposto. Non ha avuto l’accortezza di
spedire un suo “BAU” neanche dietro sollecito. Che fare? L’esercito si è
impiantato nel suo cervello e nell’esercizio di rispondere avrà perso le forze
per farlo? Non ci credo. E’ il semplificato sabato sera partecipato da clave
brandite come regolatori d’iniziativa. Ho commissioni da commettere e
pentimenti da non dormirci la notte. Ho la soluzione per dormire sereno
nell’intento ciceronico di accompagnare Maometto in Calabria.

Sono
il cieco con il cane al guinzaglio. Metti del pepe a disposizione dell’olfatto…

E’
quello che accade in larga scala. Una larga scala a chiocciola sulla quale il
guinzaglio è un lusso. Lascio il lusso con forti contusioni. Nessun problema in
merito.

Lorenzo Vilasi: QUALCUNO S’INCAZZA

 
 

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Ho perso tempo aspettando

non ho cercato niente di meglio

sono rimasto a guardare

mentre calpestavano i miei sogni

ho perso tempo lasciando nell’aria

quell’odore ammuffito di
una casa chiusa

da anni

sono rimasto chiuso, legato

mi hanno costretto a fare danni

a giocare con il falso

a credere di non esserci dentro

a quantificare le colpe.

 

Qualcuno s’incazza prima o poi

anche se ci vuole un po’ di tempo.

Se la farete franca

è solo perché qualcuno è diventato veramente libero.


 

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Giuseppe Porcino: IL POMERIGGIO PRIMA DEL FUNERALE

 

Il pomeriggio prima del
funerale

Essere incomberebbe essere

Un’ astrazione immortale

Non sempre come vorrei.

Non è vana la mia affezione

E’ vanità, distrazione,
distorsione.

Così non tengo conto dei buoni
ammonimenti

Pasteggio al di là dei passi

Passeggio prima dei pasti

Io ed il rumore delle suole

Nella eco dei palazzi spenti.

Dammi un motivo e smetto

Adotto un cane e non
l’idrofobia

Passo dai sostantivi alla
sostanza

Mi faccio agile da
schiacciare noci

Con la punta dei piedi.

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NIENTE di Pino Amaddeo

Niente, assolutamente niente,
ho ucciso per niente.
ho amato per niente,
ho sofferto per niente e tu chiedi.
Niente
Taci o chiedi il mio nome.
Ma non rompermi i coglioni !
Le mie passioni ?
Ah si, coltivare gelsomini.
Il tuo silenzio accarezza i coglioni
il tuo chiedere fa appassire i gelsomini.
Della rivoluzione ormai non me ne fotte niente.
Anche il mio cane se ne fotte,
anche tua sorella se ne fotte,
anche tua sorella me la fotto,
è una vacca e gode.
Devo avere ritegno ?
Certo, certo,
sono io quello che deve avere ritegno,
porco di un dio.
Dovrete costruire una croce per me
e inchiodato dirò :
padre, ma che cazzo di padre sei ?
Nient’ altro.
Cristiani e democristiani,
comunisti e neocomunisti
non dovete rompere i coglioni a chi cerca di amare
anche se poi non ci riesce e coltiva gelsomini.
Taci e non mi chiedere chi cazzo sono.
Volete che faccio i nomi ?
San Pietro è stato semplicemente più furbo di Giuda
Cristo ha avuto un pessimo padre
Mao tse tung aveva una pessima madre
Marx non coltivava certo gelsomini.
Nient’altro.
Della rivoluzione non vorrei fottermene
ma tua sorella gode come una vacca
ed io non ho più ritegno, porco di un dio.
Niente.
E’ vero, hai ragione, ho un nome
e della rivoluzione non me ne fotto
ma tua sorella me la fotto.
E lei gode come una vacca.
I comunisti sono nei.
I cristiani sono demo.
Giuda è stato fesso, è morto per niente.
Marx non ha mai coltivato gelsomini.
 
 
 

O una giostra o una scala di corda

O una
giostra o una scala di corda, con i nodi faccio l’asola all’abito bianco nel
granaio dei fiori d’arancio,poi vestita di rughe e lo scialle accompagno lo
sposo disteso all’altare, poi lo porto all’unica Tanca dove le pecore guidano
il cane e impastando il pane mastico i rovi che dicono facciano bene,li mastico
e li sposto da una guancia all’altra e le edere crescono mute sull’uscio di
ardesia, il focolare, le chiacchiere delle gente dalle scarpe verniciate.

Poi sposto da un occhio all’altro le spine delle cateratte dal dondolo che mi
culla la lingua, ed il tempo e i due prigionieri (tra ciglia di salice) si
guardano: allora ancora mastico il rovo e se il mio abito bianco l’ha preso
l’unica figlia di lui per andare distesa a trovarlo a me resta il granaio dei
semi d’arancia che sputo come rondini tra le stoppie prossime al fuoco di
quell’ultimo ceppo che brucia e che fu quel grande olivastro, curvo come una
donna prossima al parto, in cui mi nascosi a sedici anni e dove s’impigliò
chissà quando e perchè, tragica cuccagna, un bianco paracadute ricamato.

 

Gianni Cossu ( Cartoline da Fernandea)
15/02/04

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LA FINEZZA di Francesco Villari

 

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Ho sospettato qualcosa del genere da subito,

subito prima il sorriso,

intendo il sorriso di dopo

quello per il quale hai forzato

ma ti ho capito.

Il sospettando mentre aspetto sconti

mentre gli scontri ravvicinati del primo tipo,

con quelli del secondo tempo,

parlano francese.

Metti le lamette alla menta

Nella bocca della veridicità delle bolse,

fascinose, mezze teste.

Metti la finezza piena a disposizione di spazio

di medici fin quando sto male

di male fin quando andrà bene

di bene fin quando di fronte al divino

inchinerò il boccale e sottile

sommerso

incongruente

seppellirò il resto nell’ansia da parto.

 

Ma io non torno.

 

Ho sospettato qualcosa del genere da subito

Ma non mi davo credito.

 

Ma io non torno.