Gianni Cossu – (AP)PUNTI DI SUTURA

 

 

Mi devo
ricordare si spostare i due libri che poggiano sullo sgabello bombato tubolare
(sgabello è un sinonimo, in realtà è un contenitore di stracci e utilissime
creme e spazzole per lucidare scarpe, poi sicuramente si trova di tutto, questo
è indubbio quando non si vive solo).

Il primo
libro (ossia quello che poggia sul sopradetto sgabello) non può aderire che in
modo approssimativo sulla superficie curva e circolare pur avendo una copertina
cartonata rigida. Il secondo (che fa peso sul primo e in fondo è lui che mi
interessa) rischia di imbarcarsi per simpatia e questo non lo tollererei, sono
400 e rotte pagine ma mi appassiona e merita di essere conservato come un
matrimonio senza separazione, al massimo perdita precoce dell’unico lettore, ci
sono libri che non si prestano, a volte si finiscono a tappe, ma non si
prestano sebbene siano copie in miliardesimi non conta, conta quella copia,
conta il TUO LIBRO.

Devo
intervenire, spostare almeno il secondo, viceversa il primo, mattina dopo
mattina lo vedrò modellare il primo come se giacesse da anni nella vetrina
polverosa e assolata anche di notte di una sperduta cartolibreria dove tutto è
sempre là, vanno via solo i fogli protocollo e le penne Bic nere e i soldi
prestati “a strozzo” dal proprietario. Sei del mattino di un sabato qualunque,
tu sei nel mattino di un sabato qualunque. Mah , per quanto mi riguarda
potrebbe essere anche un Neo-giorno di un Neo-calendario dove la Domenica cade
ogni trent’anni del non più in uso calendario gregoriano.

Il problema
sarebbe ricordarsi il nome, del giorno intendo, suppongo che passeremo numerosi
anni della nostra formazione a mandare a memoria solo i nomi delle scatole usa
e getta dei giorni in cui ci svegliamo. Probabilmente, sicuramente, gli animali
domestici longevi, che so ,le Tartarughe ne saprebbero più di noi di feste
comandate intendo e di altre pause dal sopravvivere rendendosi utili alla
propria sopravvivenza o dei propri cari, perché il resto, in fondo, sono
chiacchiere: il mondo gira, in fondo, in fondo, solo perché non sappiamo se,
nella ruota del Criceto siamo a testa in giù o in su, tutto qua, il resto
chiacchiere, forse. Comunque ho mal di testa e il solito torpore di sogni
avariati da smaltire, mi concedo una pausa bagno che poi è questo scrivere
seduto nell’unico posto sacro sotto il quale, scavando non troverebbe resti di
templi pagani o altari megalitici o altro che dimostri che dalla più remota
antichità il mio “Cesso” era stato scelto come un luogo sacro, miracoloso,
pervaso di misteriose energie, capace di guarire gli storpi.

Almeno
credo, ma a pensarci bene gli studiosi del passato non hanno ancora indagato su
questa relazione. Mi concedo una pausa in bagno insomma che poi è questo
scrivere scorrente, appagante che non avrà bisogno di revisioni o di tagliandi
quando lo ricalcherò in qualche font, in un bel nero sul display di un
qualsiasi word processor.

(continua?)

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Gianni Cusumano – BOX DA 6


 
  

Ho visto un uomo cadere.

 

Cade a terra,

senza eleganza,

senza stile,

senza motivo.

Cade. Cade e basta.

Niente in lui ricorda una piuma.

Sbatte il muso contro l’asfalto,
e niente più.

Pesante e doloroso.

 

Veloce e irrimediabile.

 

Proprio in mezzo alla strada

quest’uomo si lascia andare.

Proprio in mezzo ad altri uomini
e donne simili a lui,

quest’uomo chiude gli occhi e
cade all’indietro.

E nessun cuscino di piume d’oca
sotto ad aspettarlo.

E mentre lui sperimenta quello
che c’è oltre il limite,

-quello che esiste solo per chi
l’ha sorpassato almeno una volta-

altri uomini,

altri bipedi,

gli stanno intorno, formando un
cerchio.

Un cerchio perfetto.

E questi esseri,

questi agglomerati organici
evoluti,

questi tesserati figli di Dio

queste partite di carne compressa
politicizzate

si chiedono in silenzio:

e adesso?

 

Con le mani strette sulle loro
borse spacciate dai neri agli angoli delle strade,

con le dita impegnate a premere
tasti virtuali su schermi telefonici cinesi,

questa gente pronta a votare di
tutto pur di lasciare un segno prima di putrefarsi nell’oblio

questa gente si chiede:

e ora?

Dov’è il televoto quando serve?

Dov’è la regina di Giordania?

A proposito, che genere di
ombretto userà prima di scoparsi il sultano?

Comprerà forse quei nuovi
profilattici per donne ancora vietati in Italia?

Sembrerebbero sicuri anche se
poco pratici.

Servirebbe una buona campagna
informativa.

 

Con la tensione che morde tutti i
buoni figli delle etichette

come mosche incollate a una
ragnatela

questi uomini e queste donne
perfettamente urbanizzati

queste grigie proiezioni
ansiogene freudiane

questi rigidi cazzi,

queste tremolanti fiche in cerca
d’autore

questa  gente impaurita si chiede:

per chi applaudire stasera? E chi
eliminare?

Pizza o involtini primavera?

Destra o sinistra?

O centro?

O sole mio o O’ scarrafone?

Candido o Candida?

Il mio avatar, mi somiglia
abbastanza?

Perché se è così non va bene.

Carne rossa o bianca?

Gratto, ma se poi non vinco?
Perché se vinco, lo devo solo a queste unghie artificiali.

Il maiale basso e furbo volerà
ancora su questo paese?

Perché i maiali volano, questo è
certo.

Ci sbarazzeremo mai di questi
porci?

Negro o nero?

Zingaro o rom?

Frocio o gay?

E il volume? Troppo alto o troppo
basso?

 

Quando finalmente passo oltre
quella depravata pozzanghera del disastro umano

storicamente riconosciuto

quando le sirene di un’ambulanza
qualsiasi rincorrono strade qualsiasi

verso un altro infermo qualsiasi

e, proprio come il trillo nervoso
di una sveglia alle 6 del mattino,

quando hai ancora la bocca
asciugata dall’alcol,

la testa frazionata,

quando l’unica cosa che ti
rassicura dal non essere morto

è il tuo cazzo ancora tiepido e
duro

e il fatto che sei disoccupato

proprio così, allo stesso modo,

così come era venuto

quell’istante di vera reality

si scioglie nel tempo del reale.

Ed è proprio allora,

mentre mi avvio verso casa,

che strappo via dal parabrezza di
una macchina

il volantino di un hard discount
lì vicino.

La birra è in offerta: box da 6
meno di due euro.

Allora butto via il foglio delle
offerte,

mi scaldo le mani nelle tasche
dei pantaloni unti d’olio di pollo

e cambio strada.

 

 

 

Giuseppe Porcino – UN TAGLIO

 

Lo
strappo è un taglio, un punto di vista, una prospettiva da osservare.

Una
opportunità, una ultima, unica acerrima soddisfazione, arma in cattivo arnese.

Bile
rivolta fidata e concubina fedele squirta, aspergi la tua piccola morte.

 

Io
ho bisogno un dio da insultare.

 

Il
sale scioglierà i nodi già pettinati

un
solvente risolverà ogni cosa.

 

Balsamo
nel tuo sugo e sollievo, umore della tua grassa gioia.

Dammi
un secondo e ritorno sommesso come un cane peloso e ruffiano a te.

Come
sempre.

 

Ho
appuntato un riflusso di nausea, un’idea rugosa.

Avrei
ucciso qualcosa, solo per sentirmi ripieno.

Oggi
mi ha sorpreso il pudore.

 

Francesco Villari – Qualcuno t’è padre

 

 

Mettere tre dita distese sul tavolo sopra il quale hai
precedentemente steso un panno umido.

Le tre dita sono a scelta.

Non vergognarti di me che tanto non guardo.

 

Guadavano il fiume con le ali di un ridicolo ricordo di quel
giorno,

il giorno della fumata nera,

quasi distintamente nera,

il giorno prima.

 

Sezionare con chirurgica calma le parti in modo da definire
gli spazi ed accomodare,

onde preferibilmente preparato, sul letto oramai adatto alle
parti asciutte.

 

Mastodontico è l’occhio del ciclope che avvicendando le tue
postille ti ha messo le mani al collo,

vittima di te stesso senza le scuse di un essere angelico cianotico
e senza denti

che ritratto a fianco lo specchio del bagno faceva
decisamente paura.

 

Diligente divaricati. Riponi sette semi di Giuda sul terreno.

Ricoprili con solerzia ed avanzata coscienza non senza aver
pianto.

Mai, senza aver pianto mai.

 

Il ruolo della lotta è fisico discontinuo di padre.

 

Qualcuno t’è padre a te?

 

In verità mi disse che sarebbe stato buono e lo fece:

l’incanto metropolitano costò solo qualche centesimo.

 

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Pino Amaddeo – PENNELLI, GENITORI O CHI NE FA LE VECI

 

 

 

Ho anche pensato di farmi prete per dare un senso alla
mia esistenza. Io, credente da sempre e devoto alla madonna, al suo seno e a
tutte le sue altre grazie. Il miracolo della verginità della madre santissima
mi ha sempre affascinato, molto di più della conseguente passione del Cristo,
fattosi uomo per me, per te, per tutti noi, per togliere i peccati dal mondo
con le sue sofferenze e la sua umiliazione. Ho percorso il normale iter del
buon cattolico: battesimo, comunione e cresima.

Ma prima del matrimonio,
qualche mese prima del matrimonio, ero quasi deciso a prendere i voti e
lasciare la carriera di sposo, marito, genitore, educatore o di chi ne fa la
veci. L’abito da prelato  mi stava a
pennello ed io imbianchino da sempre ero stanchissimo di carteggiare  e stuccare e poi imbiancare, quasi sempre con
il solito colore e soltanto qualche spugnato per menti viziate, molto
probabilmente viziate dal loro stesso ingombro esistenziale. Ho avvertito in
tutti quegli anni che anche la mia esistenza si muoveva seriamente dentro gli
ingombri.

Dunque era giunta l’ora di cambiare e lasciarmi andare
definitivamente alla fede che aveva supportato tutti i miei malesseri
interiori, esteriori e a volte anche posteriori, la fede quella vera, fatta di
sofferenze ed umiliazioni proprio come nostro signore Gesù il Cristo. Ma… ahimè
mi sono aperto con la futura sposa, ho svuotato il sacco del mio costruire,
quel costruire che rapidamente avanzava dentro il mio io. Lei mi disse che
nella gioia e nel dolore sarebbe diventata madre.

È così che la mia fede ha
perso. E vissero infelici  e ancora in
cerca del colore giusto.

 

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Aldo La Serpe – TEMPO PRIMO (estrapolato da SOLO TUA)

 

Sono mie queste parole, queste
collette d’interni, o abbracci per contratto, o regole sotterranee, o ancora
cantine di frustrazioni? Chi sono gli uomini che troveranno fragore in me? I reclusi? Gli internati? Sono delle
parole queste? Dove sono chiuso? Dentro l’esplosione di una cella?

Diciamo che stavo seduto sul
water, sai cosa si fa sul water? Io lo so… io mi svuoto e poi mi riempio e
m’ingrasso e se crepo ingrasso i vermi e se non crepo sfondo …

Muovetevi miei cari sinistri,
miei cari ministri, miei cari ospiti al banchetto dell’emisfero cerebrale
affinché io sia posseduto. Stronza, vuoi che io sia posseduto? Già fatto! Da me
stesso…

Quindi spegnete la luce,
cavatemi gli occhi, strappatemeli che voglio più visioni. Bando al suono, e ai
colori, e che abbia pazienza il mare se lo rivelo ancora una volta. Sono stato
castigato dall’enormità una volta…

Che sia pure quel che merito,
io ora proprio sul punto di esplodere farò l’infame, e gli dei mi puniscano
anche loro se mi pentirò sul fatto di non scorgere dentro il cuore pieno
godimento nel rivelare il male fattomi ingiustamente… occhi pazzi dentro una
gabbia di pazzie e passioni.

A che punto sei mio fraterno
lettore?

Eccolo arriva. Si, è arrivato
con le streghe, non sarei mai riuscito ad immaginarlo altrimenti. Che
tempestoso inizio che è con tutti i suoi prodotti tipici, è un vero maestro.
Sono posseduto a metà come piace a lui.

Lentamente o dolcemente sale
da sotto al cuore e stimola quello che più può farmi paura. Ma si… amerò fino
in fondo il male o il bene, tanto poi mi sveglierò con le descrizioni più
belle. Coraggio bambini un due e tre fuori dal giardino dell’infanzia, ecco gli
odori, ecco la città oscurata, ecco la missiva di espiazione. Il vero massacro
è la verità se scovarla non la vogliate: il tuo mondo è salvo per una
bugia. Al sottosoccorso il corpo ha
poesie, non organi…

La beffa, la reclusione del
coraggio per non dire tutto, se solo avessi la certezza che il segnale al
giusto orecchio giungesse senza tramite dire, anche se di preciso al collettivo
non saprei che vomitare, la mia la dico bene adesso. La strada è calda come la
piena estate vorrei la coda di un felino e correre, ma ho i piedi quindi ecco
la miccia. Ma dove sono le mie braccia, il tuo riso e le nostre mani per mano
Signore? Non so a chi mi sono rivolto ma so di non essere confuso, sarò
preciso: sto sciogliendo il cuore goccia a goccia e poi un’altra e un’altra
ancora lentamente nel ventre della corsa che porta fino al mare, quello dove
sempre si tocca, lì non ho paura di affogare. Apri la bocca, i tuoi denti
bianchi e perfetti masticano aria fino all’essenza. Io ti guardo e non lo sai?
Non senti che vorrei sfiorarti? Non toccarti! Sfiorarti come piaceva a te … Lo
scrivo quanto ti adoro ma tu non guardi dove non so e dove immagino, e per
questa fantasia tremo, mi perdo e mi trafiggo prima di vestirmi a festa ed
uscire. Se io parlo o chiacchiero o aspetto e m’intrattengo cantando, cantando
potrei sentirmi lo stesso vivo. No, no, no vivo! Di certo lo sono! Allora,
diciamo, potrei sentirmi utile a me stesso.

Ricordo e arrossisco nel pensarci
su, che ero davvero triste davanti agli occhi suoi e non capivo come mai, e non
lo comprendo neanche al momento, boh sarà che adesso non mi importa un bel
niente credo… forse non sto rimuovendo un granché … Bah… poco conta quel che
dico, in questa circostanza confusionaria il mio massimo è l’innato non il
peso. Il vero sovversivo oggi è chi non si lamenta, io penso di lamentarmi su
qualche cosa di preciso, no forse sono un po’ arrabbiato con Dio perché non
trovo troppo piacere ad avere troppa coscienza e decidere d’avere troppa testa
sulle cose che in qualche maniera contano. Contatemi i capelli che mi esplodono
e perché! Parole a vuoto anche per me, si le mie, le mie, le mie
parole … le mie parole d’amore. Denunciatemi a me stesso che voglio confessarmi
ad un possibile rappresentante di Dio e assolvermi se tutto torna… se… Non
darmi l’amore se tieni alla mia salvezza, capisci cosa esigo, non ricoveratemi
dalle megere. Non darmi la ragione ancora per un Po…poco! Vorrei che il grande
acquazzone che si tuffa nel piccolo fiume divenisse donna da mordere e che
fosse un buon canale all’inferno che cerca lo sfogo immenso.

Ci pensi, le alghe
muoiono di fame, perbacco, di fame, non è stupidamente ironico che le alghe
abbiano fame? Io pensavo fossero in acqua per la sete primitiva come una sorte
di grazia.

Io pensavo tante cose anche
che tu fossi mia, ma tu sei solo tua. E porco del tuo dio anche io sono solo
mio.

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Gianni Cossu – L’ UNO E L’ ALTRO

 

 
 

I

Perché
tutto quel fracasso, quel ciondolar d’anni e danni?

Perché
tu dell’Altro cercavi la compagnia:
fosse il lutto o il passeggio, la battuta di spirito o lo spirito di corpo, il
battito lieve, di soppiatto, a piedi scalzi di neve, delle palpebre di un cieco
che s’immagina…che immagina se, nel suo chiuso buio, faticare con la slitta dei
sandali del francescano in un cader senza posa di farfalle… in un vorticar
d’ali e polline e farinose sabbie.

 

II

Poi
e quindi e intanto gli Insomma si incrociavano a trivi, ai dividendi… al
conoscere tutti per stretta di mano: il banchetto, la visita di leva, la posta
senza bandoliera, in breve, a quell’Altro
che mai era in casa, ma sempre e solo una macchia d’ombra in montagna o
nell’ultimo libro che te lo raccontava. Quell’Altro che mai ti veniva a trovare a te che eri l’Uno, sebbene sentissi tuonare le nocche
al portone la notte, ma dietro mai v’era nessuno oppure solo l’Uno: quel te che bussava e scappava e lo
vedevi sul Pino beffardo gridare: “Mare! Mare! Mare!”

 

III

E
anche quando l’Altro, quel che
cercavi, non lo apprezzavi o ti era nemico oppure lo guardavi  dall’alto, come fossi il suo secondino nel
Palazzo di Carte in un passare di “Punto!” e “Rilancio!”.

E
all’alba chi era uscito dal cerchio (con un saggio “Passo la mano”) vi portava
il caffè a Te e a quel Cuoco che avevi cotto a puntino. Anche quando vincevi,
intendo, e guardavi quegli occhi che mettevano in fila gli zeri sulle labbra o
su una cambiale, anche allora che annusavi la cenere come il fuoco quando,
finito il lavoro, si fuma il suo sigaro disteso sull’orlo del suo vulcano. Anche
allora scoprivi che l’Uno e non l’Altro (quell’Altro che ti lasciava la trattoria, i figli, il maiale, il campo di
fave sul tavolo) ti aveva beffato  e che
divenivi ricco con Assi e con Coppe del tuo, di ciò che già avevi perché avevi
giocato con Te, con l’Uno e non l’Altro, quell’Uno che moltiplicavi, ma non potevi dividere. Insomma non c’era
nessuno a sparare, non c’era nessuno a giocare, non c’era nessuno oltre Te e il
formicolare di mille non Altri da te,
tutti specchi e un medesimo pozzo…

 

IV

Così
quando ancora nuotavano gli anni, io intendo dire, come naufraghi senza riva in
esodo sul fondo del mare, sul fondo che in fondo ti bastava sol quello:
scalciar dalla nave che affonda (o riemerge dal fondo) legati a catena i tuoi Te clandestini, ma ti bastavan
l’affogare continuo, le giostre inchiodate alle bare, i cimiteri di impossibili
guerre, ti bastavan come l’orme di gesso avvolte in un panno trovate di un
Minotauro, di un Fauno, una Ninfa che gocciola resina dall’anca colpita del
tronco di un Pino in cui s’è mutata….

 

V

Insomma
ti bastava la lotta o l’andare di corpo, ti bastava qualcosa, ti bastava sapere
che c’era un Prossimo tuo che non fosse l’Uno,
ma l’Altro, un qualunque Altro o un unico Altro, anche uno solo che non fosse di te il seme o il frutto, ma
un simile o l’opposto, di qualunque fattezza e postura, ma Altro comunque e dovunque oltre i tuoi desideri e i tuoi peggiori
auspici.

Ci
fosse insomma e restasse, anche segreto e nascosto, ma vero, veramente vero e Altro da Te a soffocarti con il cuscino,
a farti morire per rinnovar la condanna dell’Uno e dell’Altro.

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MeltedMan – SENZA TITOLO

 

 

Anche se la luce
dell’evidenza ha nutrito il nostro sangue

Non resistiamo

al richiamo del lusso
s-p-e-t-t-a-c-o-l-a-r-e

sempre voltati a guardare dentro lo specchio

La Meraviglia delle
meraviglie

la bocca contorta in
una smorfia di piacere

ci piace credere che
sia tutto bello

così…..

così comodo.

Rivestito in pelle.

Ad iniezione
traumatica.

Consuma poco.

Non si lamenta.

Evita il peggio.

Dà soddisfazioni.

Sa muoversi con
disinvoltura.

Vomita parole con
classe.

Non sporca.

Ride nel momento
giusto.

Sporca ma poi
pulisce.

Sa piangere, se è il
caso.

Si fa usare.

Ti usa.

Amen.

 

 

Jole Gallo – C’ERA UN SASSO

 

C’era un sasso che
serio pensava

Sto da cazzo in questo
universo,

sto di merda in questa
stagione

dove tutto è una mera
opinione.

 

L’osservava dal cielo
una nube,

che leggera sull’ostro
viaggiava.

L’osservava ed era
stupita

Di saperlo così solo
ed affranto.

 

Fu per questo, o forse
per gioco,

che si mise in
contatto con lui.

Fu per questo, o forse
per sfida,

che col sole si fece
più amica.

 

Dolcemente per lui ombra si fece,

dolcemente gli diede
il conforto

di una lieve carezza
di sera,

di una fresca mattina
straniera.

 

Ed il sasso, che prima
era duro,

dentro al cuore, e
dentro la mente,

gli rispose, assai
brevemente

Fatti fottere, nube di
merda !

 

Se volevo dell’ombra
su me

Ricoprirmi potevo di
sabbia.

Non mi serve una
fresca carezza

Quando sento
quest’algida morte.

 

Va fan culo, o nube di
merda!

Va fan culo tu e tutto
il cielo,

che pensate di esser
migliori

per il fatto che state
più in alto.

 

Se io voglio so anche
volare,

so saltare, io so
rotolare.

Se io voglio, ma
voglio star male

Perché oggi mi piace
così.

 

Non ricerco la tua
comprensione,

né io voglio la tua
compassione.

Me ne sbatto davvero i
coglioni

Dell’aiuto che tu mi
vuoi dare.

Non lo voglio, e puoi
andare a cagare!

 

 

E la nube, che
sull’ostro viaggiava,

si rimise più in
fretta a volare.

Si rimise, ma rimase
un po’ scossa

per quell’odio,
davvero profondo,

generato da quella sua
mossa.

 

E nel giro di un solo
secondo

Ritrovò quella gioia
di vita,

ritrovò quella pace
infinita

che da sempre sentiva
nel cuore.

 

C’era un sasso, che
incazzato restò,

e una nube, che sapeva
volare.

 

 

Francesco Villari – MALEDETTO BERNACCA.

 

 

 

Ero certo che mi stessero
osservando dall’alto. Non esco mai di casa senza aver prima controllato che il
meteo favorevole sia il mio compagno di viaggio. Il meteo. Maledetto Bernacca,
incubo nei miei incubi che mio padre non capiva e che io rifiutavo di spiegare.

Sole a catinelle. Va benissimo.
Premurosamente porto l’ombrello. Inglesina con l’affare sotto braccio. Chi
vuole le bombe che l’I.R.A. può scatenare sotto casa? Chi vuole marciare pavido
e preciso a tre secondi dall’apertura della sessione pomeridiana di borsa?

Ero
certo che mi stessero osservando dall’alto. Chi altro avrebbe potuto tessere la
tela se non Pjolo, dimenticata divinità di riserva che ha fatto della pioggia
la sua arma e della mia vita il suo obiettivo. Sole a catinelle. Va benissimo.
Mastico un chewing-gum. Una botta sulla spalla destra dal tizio invernale che
non mi chiede neanche scusa. Non lo avrei scusato. E cosa farmene delle scuse
in un epoca in cui le nozioni di egoismo mi han reclutato con un volantino gustosamente
esplicativo? Scusa? Mi distraggono le scuse, va bene? Che ne dici di
considerare le nuvole sopra la nostra testa? Come?

Inizia a piovere. L’ombrello
è rotto. Si è rotto. Infilzo il tizio invernale ed alzo la copertura. Devo
difendermi. Pjolo ha capito tutto. Io rispondo. Io ed il chewing-gum. Sputo in
aria. Sputo a Pjolo. Sputo dalle minuscole insenature che il mio schermo
protettivo mi concede. Sputo e vinco. Mi abbatto. Il chewing-gum. Le pioggie
tempestose penetrano i lati. Sono finito. Piove sangue. L’invernale Pjolo si
materializza sopra di me e non ha più alcun bisogno della pioggia. Mi sorride
morto mentre piove sangue. Vaffanculo il meteo. Il caso. Le mostre d’arte nel
tardo pomeriggio. Che dovevo farmene poi di una visita alla permanente di
surrealismo?

 

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