Pino Amaddeo – LE RAGIONI DI UN RAGIONAMENTO IRRAGIONEVOLE

Penso che ancora potresti ricominciare.

Risalire pian pianino quassù.

Ripartire esattamente da dove mi son fermato, ormai sfinito…distrutto…
come quando curavo le ali ferite agli asini, baciavo le orecchie ai conigli
supportavo e sopportavo tutte quelle grandissime minchiate o ideologie.
Studiare le vostre mosse, sputare sulle vostre chiacchiere a tempo perso
scappare da questa infinita tristezza.

Adesso solo questo posso fare!
E’ ancora un ricordo vicino e che brucia, cercate di capirmi. Idioti!
Non appartengo a nessun filone postmoderno o neo rivoluzionario.
Ho sete, ho solo sete, semplicemente sete.

Siediti!
Perchè non ti siedi qui con me a bere un buon bicchiere di vino?
Ma quale rassegnazione? Gli asini continuano a volare.

Imbecille!
Bacio le orecchie ai conigli morti, gli stessi conigli che avete ucciso voi,
li avete uccisi perche siete un immenso branco di ignoranti, supertiziosi
e a dire il vero, anche un po’ comunisti. Ignoranti a tempo pieno.

Porci!
Serve un fegato grosso, grosso quanto il vostro maledetto conto in banca
e per questo che vi scandalizzate davanti alle mie bestemmie
e per questo che pagate le multe e per questo vi fate le seghe
perchè avete visto la fighetta di una tredicenne, perchè dio vi assomiglia,
vi assomiglia troppo.

Ma non è finita quest’ altra mia stupida  poesia?)
ne ho anche per te, fratello, figlio dell’appartenenza o di chissà quale dio.
Perchè non ti siedi qui con me a bere un buon bicchiere di vino ?

Non è vero un cazzo che io e Satana siamo amici. Si, ci frequentiamo… ma lui ha delle idee in testa… io invece, sono per il non ragionamento.

Ok, andiamo d’accordo ma per motivi strettamente politici, tutto qui.

Adesso devo andar via, cercate di capirmi, il lavoro è tanto…

ahaaaaaaaaaa ahaaaaaaaaaaaa ahaaaaaaaaaaaaaaa

(photo SteDigit)

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FRIGO TALES Storie di un Espatrio

“I Frigo Tales sono un viaggio raccontato in diretta da viaggiatori che non si prendono troppo sul serio, ma al viaggio ci credono. Lo ritengono assurdamente, ma anche razionalmente indispensabile, un’occasione che forse non porta a niente, ma forse porta a qualcosa e perciò vale la pena di cogliere. Ci senti dentro la strada che fugge, le soste negli autogrill, il sapore delle birre e dei panini. (…) Non sfiora nemmeno l’esibizione letteraria, ma appare come una vera cronaca, simile davvero per questo suo carattere pratico e utile, a quelle dei viaggiatori medioevali, unici testimoni nel loro tempo dei paesi lontani e meravigliosi che avevano visitato.”

dalla prefazione Vincenzo Sparagna

Frigo Tales è la nona pubblicazione di AUTOPRODUZIONI APPESE, nata dalla felice collaborazione con i tipacci di Frigidaire a sostegno di Frigolandia.

“Cercammo la democrazia alle 2 del mattino dentro un umido Autogrill
sperduto chissà dove, superato il confine con la Basilicata. Scendemmo
dalla macchina inciampando su un tappeto di bottiglie morte sparse qua e là sotto i sedili. L’olocausto del vuoto a rendere.”

stralcio da Frigo Tales


Puoi leggerlo per intero cliccando qui:

http://issuu.com/autoprodappese/docs/frigo_tales

Puoi scaricarlo cliccando cliccando qui:

http://www.divshare.com/download/12749493-1d8

Buon viaggio!

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Julio Carnera – UN GENIO COME TANTI

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore
aveva pubblicato un mucchio di libri
erano stati tradotti in non so quante lingue
e perfino F. P. prima di raggiungere Hemingway e gli altri
scrisse parole entusiaste sul suo lavoro.

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore,
“la rivelazione dei nostri tempi” aveva detto qualcuno,
uno che, grazie ai suoi libri,
aveva potuto arredare le mensole dello studio
con premi, trofei, medaglie,
e un mucchio d’altri riconoscimenti.

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore,
che sapeva come accendere anche le parole senza vita,
che era stato battezzato alle fiamme dell’inferno
e possedeva perfino una brillante dialettica,
qualcosa in più che faceva di lui un GENIO
in confronto al resto del mondo.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
e che s’era aggiunto la lettera G. di genio
a metà tra il nome e il cognome
iniziò a scrivere sempre meno
e a farsi vedere sempre di più,
specie alla televisione.

E allora?, direte voi, che c’è di male?
Era un genio, è normale che uno com’era lui
andasse a finire in qualche studio televisivo.

Io non lo so se è poi così normale.

Direte che sono uno che dimostra
più anni di quelli che ha veramente
ma penso che in TV
dovrebbero starci solo i pagliacci e le puttane
e, a meno che non debbano per forza intervistarvi
e fare di voi l’ennesimo “caso letterario del mese”,
non dovrebbe essere quello il posto
per gente che scrive.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
pensò che oltre a rispondere a qualche domanda sui suoi libri
avrebbe anche potuto illuminare col suo genio anagrafico
l’oscura coltre d’ignoranza che opprimeva i palinsesti pomeridiani.
Allora aggiunsero un posto sulla poltrona
insieme agli altri opinionisti di mestiere
e ogni giorno, all’ora del caffè,
il genio diceva la sua
su questioni che riguardavano uomini e donne comuni
con problemi troppo comuni per sembrare veri.
Era anche piacevole vederlo seduto lì
mezzo ubriaco, col sigaro stretto tra i denti
che faceva la sua bella figura da genio
messo in mezzo a quelle altre facce
di plastica televisiva.
Si vedeva, insomma, che non apparteneva a quel posto.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
sembrava stare sempre più comodo
seduto su quel divano.
Pensò che non era quello il momento di mandare tutto all’aria
di appiccare un bell’incendio e scappare in sella al suo leone,
specialmente adesso che il cuscino gli aveva preso la forma del culo.
Più appariva sullo schermo
meno parole bruciavano sulle pagine
e via via
col passare dei giorni,
dei mesi,
degli anni
quello che era stato l’ultimo grande genio
della letteratura contemporanea
dovette cedere il posto sulla poltrona
a qualcuno con un indice di gradimento
più alto del suo,
a un altro genio come tanti
e farsi da parte.

Smisi di sentir parlare di quest’uomo
che era stato un grande scrittore.
Non pubblicava nulla da un pezzo
e nemmeno la sua faccia si vedeva più
in giro tra i palinsesti.

Poi,
una sera che me ne stavo lungo
disteso sul letto completamente nudo
dopo aver fatto all’amore con la mia ragazza
sfinito e boccheggiante,
mentre cazzeggio col telecomando
saltando da un canale all’altro
ecco che vedo disegnarsi sullo schermo
il volto del genio in persona.
Non era cambiato molto dall’ultima volta,
solo in viso sembrava più gonfio.
Questa volta aveva una semplice sedia di legno sotto al culo
e insieme a lui, nello studio,
c’erano altri sedicenti scrittori, sceneggiatori, psichiatri, e Dio sa cos’altro.
Si parlava di una donna che aveva ucciso il figlio di pochi anni
e ognuno di quei geni, a turno, diceva la sua a riguardo.
C’era anche una poetessa
che disse d’essersi dovuta chiudere in bagno
una volta
per non soffocare il suo piccolo in fasce
che non la smetteva di strillare.

Comunque sia
alla fine del programma
la presentatrice annunciò la prossima storia
che il genio in persona aveva scritto
appositamente per il tema della serata.
Lui stesso disse qualcosa,
definendolo come
“un racconto basato sulla DICOTOMIA grasso/magro”.
Rise di gusto
prima di aggiungere che
“questo faceva di lui un genio della narrativa contemporanea”.

Mi schiacciai una zanzara sul braccio
e rimasi in attesa del capolavoro.

Allora
una donna cominciò a recitare la storia
su quello che sembrava essere un cartone animato
disegnato apposta per il racconto.
C’era una ragazza troppo magra
che aveva sposato un uomo troppo grasso
e, dopo innumerevoli tentativi,
finalmente lei aveva dato alla luce un bambino
che però era nato con una qualche forma di ritardo
spingendo così la madre della ragazza
a soffocarlo con un cuscino.
Si chiamava “Mamma Mia!”
e il tutto sarà durato non più di 2 minuti.

Spensi la TV e mi avvinghiai al corpo sudato della mia ragazza.

Al buio di quella notte calda,
ringraziai di non essere un genio.

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PERGAMENA APPESA n° 03

Felicitazioni senza compromessi. Premesso che il resto se ne fotte di chi resta, mi sa che siamo rimasti davvero in pochi. Ma, come disse quello che se ne fotteva: “Non preoccupatevi, ci estingueremo!”.

Aspiranti e
aspiratori, comandanti e cospiratori, vogliamo specificare che il proposito è
chiarissimo:

ci auguriamo che
la PERGAMENA APPESA possa essere il peggior
tascabile in circolazione.

In fondo si tratta
solo di un

ROTOLO PORTATILE A
BASE DI:

CRONACHE

DISGUSTO

SCHIZZI

PAROLE DELIRI

ABUSI

LA PUOI SFOGLIARE
QUI:

http://issuu.com/autoprodappese/docs/pergamena_03corretta

PER IL DOWNLOAD
SERVE ISCRIVERSI A ISSUU.COM

(MA NE VALE LA PENA!)

Oppure potete scriverci

allaredead@alice.it

jahnny@hotmail.it

ve ne allegheremo

una copia in pdf.

Ultimo ma importantissimo consiglio:

una volta
effettuato il download, o richiesto il pdf, si consiglia di stampare su foglio
formato A3 e piegare su se stesso.

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Pino Amaddeo – IL PROSSIMO AUTUNNO

No… perché… se con questa iniziativa riuscissimo a coinvolgere
anche qualche personaggio della sinistra alternativa,
moderata,
anti-borghese ma con sette conti in banca,
marxista e un po’ cattolica
potremmo anche fare una gran bella figura e guadagnare qualcosina
per la prossima grande iniziativa del prossimo mese… che ne pensate ?
Dite velocemente cosa ne pensate, dai a giro, dite la vostra minchiata.
Quand’ero piccolo avevo paura di mio padre e di chi comandava
dentro i giardini annusavo le margherite e rincorrevo le lucertole
il parroco mi perdonava sempre ma io puntualmente lo fottevo
non ho mai detto un padre nostro o un avemaria come mi ordinava.
Questo mese sarà denso di impegni :
i carciofi, le stragi impunite, le cipolle, tua sorella che mi aspetta,
le pugnette e anche questi ragazzi che con tanto entusiasmo
si avvicinano alla Parola… questo scambio di sensazioni
è fantastico, quasi sovrumano, voi che ne pensate ?
Dite velocemente cosa ne pensate, dai a giro, dite qualche puttanata.
Da ragazzo leggevo e scrivevo poesie proibite, descrivevo il tuo seno
o meglio scrivevo di quanto mi sarebbe piaciuto baciare il tuo seno
ma poi arrivava l’inverno e adoravo stare sotto l’acqua piovana
gli ombrelli mi stavano parecchio sul cazzo e non bestemmiavo
poi ho scoperto che mi rubavano la gioia di vivere.
Potremmo anche coinvolgere quell’associazione
Come si chiama?
Cazzo adesso non ricordo.
Ah, ecco: “Gli amici del rione”.
Sembrano personeche vogliono impegnarsi in questa direzione.
Che ne pensate?
Pensateci e la prossima volta
continueremo… avremo qualche elemento in più.
Sono troppo vecchio per ascoltare bugie premeditate
con un po’ di fortuna vedrò anche il prossimo autunno
foglie sulle mie labbra, sorrisi e botti piene di vino.
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Peppe Porcino – Ho la mappa del piano

Periferia caserma, finestra a blu intermittente

il ventre piatto di Reggio Calabria

faccia buona del padrone

abuso solito e rumore di posate.

La poltrona in simil-pelle al secondo piano vuole la tua pelle

vuole vendicare la sua essenza posticcia

la sua anima tarocca

il suo toupet interiore

ti si attacca addosso fino a strappare i peli:

la vendetta e la ceretta.

Gli alieni esistono, somigliano a piccole lucertole e non hanno telefono

E.T. a chi cazzo telefoni casa?!

Con lenti nuove ho culi di bottiglia

deformazione e professione

immagine e masturbazione.

Ho la mappa del piano ed ho un piano perfetto

La verità è tempo, il dubbio è indispensabile vizio.

Ho coltivato in campi infetti l’amore per la mia malattia.

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Francesco Villari – LA STRAORDINARIA AVVENTURA DI GULLITER



Quando Gulliter raggiunse la costa era giorno. Un uomo enorme. Con i suoi dread lunghi fino al culo, come fossero delle fruste pronte all’uso. Un uomo enorme e stanchissimo. Con quelle mani che avevano pagaiato fino alla spiaggia sulla quale adesso giaceva ricoperto dal sole e dalla sabbia Italyota. Si svegliò qualche ora dopo e scoprì di star bene. Quel bene che ti convince di essere ancora vivo nonostante tutto, che ti convince di essere ancora in grado di ricordare il motivo per il quale hai deciso di voler correre quel rischio.
Riprese le forze, Gulliter si incamminò tra gli alberi, distanti qualche centinaio di metri oltre la spiaggia. C’erano delle tracce tra le piante, dei sentieri naturali che davano come l’impressione che ci fosse già passato qualcuno o come l’impressione che quel qualcuno avesse preparato una trappola.
Gulliter si allontanò, con circospezione. Brattolaso, incaricato dal signore delle bratte al comando dell’isola, era un uomo furbo. Costruiva tutto quel che riteneva fosse da costruire secondo una rigida visione delle cose: non deve cambiare niente! La sua opera era una ricostruzione della realtà che, sfigurata dall’inesorabile trascorrere del tempo e dall’imprevedibilità della natura, andava riproposta in maniera identica a come era stato prima.
Costruiva una bella capanna dove c’era stata una bella capanna. E quando anche questa bella capanna sarebbe crollata – destino infame – la avrebbe ricostruita identica. Secondo le leggi antisismiche e antisommossa, controllava la tenuta dei pensieri delle bratte in ugual maniera. D’altronde era facile: era tutto scritto nelle rune di Brattasconi, l’immenso mezzosangue nano, signore e padrone delle bratte e di Brattolaso.
Il capellone Gulliter conosceva bene Brattasconi: lo aveva voluto lui nel Mitran. Lo aveva personalmente arruolato in quello squadrone della morte capace di sconvolgere il genere umano dedito alla rincorsa della palla prima che finisca nella rete. Per conto del mezzosangue nano, aveva anche ucciso gli hackers che utilizzavano l’equivoca dicitura “palla nella rete” per adattare i sistemi della comunicazione Infernet al programma di liberalizzazione delle informazioni chiamato Zeroazero: nessuna palla sarebbe dovuta entrare in rete ed il pareggio sarebbe stato il risultato democraticamente riconosciuto ed accettato, un risultato libero dai tagli disposti dalle rune. “Stronzate!”, pensavano in tanti, “è gente che va uccisa e basta perché contravvengono a quanto il nostro ruolo di controllori prevede e dispone”.
L’enorme uomo non più stanco, l’enorme Gulliter, non ne sentiva il rimorso. Ma pensare alla possibile esistenza dei rimorsi acuì il suo dolore, della ferita del suo cuore, perché non si finge nell’amore: doveva uccidere Brattasconi perché si era scopato sua moglie durante una domenica di battaglia sul campo.
Non poteva pensare che una donna – la sua donna – fosse stata vittima della violenza di un mezzosangue nano, per quanto divino si pensava potesse essere. Aveva nuotato tutta la notte. aveva ripassato il piano mille volte tra una bracciata e l’altra. Doveva colpire per primo Brattolaso, che dopo la folle corsa del nano dentro sua moglie, aveva utilizzato tutti fondi per ricostruirle l’imene e rifarlo identico a come era prima del loro primo incontro.
Una verginità fasulla, un amore alla deriva, un cazzo di nano. Non aveva mai pensato a quanto fosse cattivo il mondo delle bratte: infimo e goliardico, accattivante e traditore, distinto e merdoso. Un mondo devastato dei missili aria-aria e ricostruito su concetti terra-terra. Ma Gulliter, enorme e cornuto, voleva vendicarsi.
Cercò la finestra della villa sulla collina. Trovò Brattolaso intento ad abbronzarsi sotto la luce del sole dagli occhi di una ragazza. Era rilassato. A breve sarebbe stato nero. Gulliter si sfiorò i dread prima di sganciare il primo bottone ed abbassarsi i pantaloni. Poi cominciò a lavorare di mano. Con piacere. Una sorta di onda anomala sconvolse le villa, le case e le capanne, spense la luce del sole dagli occhi di una ragazza e affogò l’incaricato. Mille bratte piansero il morto. Mille bratte morirono a loro volta. Altre mille bratte non si accorsero di niente.
“Mors tua, mors tua”, diceva quello.
“Mors tua, vita mea”, era quello a cui pensava costantemente Brattasconi, il maledetto. Nel silenzio del sonno, Gulliter provò a raggiungerlo fin quando… fin quando… il nano lo prese da dietro e cominciò a sforbiciargli via tutti i dread, uno alla volta. Cime, ciuffi, nodi che il bastardo avrebbe solo potuto comprare, volarono per tutta la stanza. Alla ricerca della gola, il nano fece un errore di superbia: considerò troppo lungo il suo braccio che non stringeva più la testa del vendicativo. E poi, non erano rimasti molti appigli.

Gulliter potè finalmente prenderlo tra le braccia. E lo schiaffeggiò. Lo mise a sedere, mentre a stento tratteneva le lacrime. Pianse, il maledetto. E quando pianse, Gulliter capì quanto miserevoli riescono ad essere alcuni personaggi che si dipingono come eroi, statisti, dittatori, stronzi. “Anche gli stronzi piangono”, pensò.
Inoffensivo, Brattasconi era legato alla sedia con del nastro isolante che gli fermava i polsi e le caviglie. Poteva parlare ma non lo faceva, il codardo. Gulliter, enorme, cornuto e davvero stanchissimo, abbassò la patta dei pantaloni e decise di pisciare sulla testa del nano. Aveva letto da qualche parte che era allergico all’ammoniaca.
“Ecco qui, cesso. Ora dimmi: da dove si tira l’acqua?”
Quello non c’era scritto sulla rivista. Fottuta legge sulla privacy.

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Hasael – IKEA (SMOKING’S ROOM)

Esistono situazioni, nelle quali anche l’apparentemente banale, diviene evento.

Un po’ come quando ti parte un rutto al ristorante, voglio dire, cosa v’è di più banale dell’espulsione di gas prodotti dalla digestione?

Eppure il luogo o la circostanza creano l’evento, che si ammanta poi di svariate tonalità, dal fucsia del poveraccio dal rutto incontrollato, al cianotico del vicino di tavolo che ridendo si trozza con le ostriche, tutto sommato se la cosa va fino in fondo è una morte onorevole rispetto a chi si intossica col pollo del supermercato!

Ad ogni modo ci sono situazioni in cui l’umanità tracima, erompendo dal ristretto spazio biologico in cui il corpo a stento la contiene, fuoriesce dagli sguardi, dagli ammiccamenti, da una sequela di gesti, posture, bisbigli e mormorii e va ad infrangersi contro un vetro.

Al di qua del vetro ci sono io che tranquillo accendo un mozzicone di sigaretta, residuo dell’elaborazione artigianale di un tubetto al THC andato felicemente in fumo qualche settimana prima.

Il vetro racchiude uno spazio di circa otto metri quadri, tre tavolini in legno su cui troneggiano dei grossi posacenere, il vetro sostanzialmente racchiude l’isola del fumatore nell’affollato self-service dell’IKEA. È quasi una vetrina, una sorta di esibizione dell’insano, del vizio, del cattivo esempio esposto al pubblico ludibrio, c’è della teatralità nel rapporto tra il fumatore e il passante affaccendato col carrellino portavivande o il pasteggiante intento ad ingozzarsi di polpettine e salmone crudo.

La realtà è messa a nudo, palesata in un gesto banale come quello di accendersi una sigaretta, la barriera vitrea isola dalle esalazioni nicotiniche, così che si possa osservare la scena in totale sicurezza, e gli sguardi furtivi o insistenti che siano, guardano la realtà da dietro ad un vetro, spettacolo alquanto consueto per chi è abituato a sbocconcellare la realtà in monoporzioni sparate da uno schermo al plasma, il reale grazie alla vitrea mediazione si tinge di surreale, si ammanta dei connotati dello scenografico, del comico.

Immerso in questi pensieri digrignavo i denti per via del saporaccio di quella mezza sigaretta che aveva albergato nella mia giberna per due settimane, assorbendone tutti gli aromi e conquistando un sapore che alle note arroganti di cartone, aggiungevano quelle raccapriccianti di un preservativo schizzato fuori dal suo astuccio in alluminio, che se n’era poi andato in giro a spargere il suo lubrificante sul Moleskine da 15 stramaledetti euro.

Il momento meditabondo si arresta nel momento in cui entra un tipo che aveva tra le dita un piccolo miracolo, avvolto in gomma arabica e dal quale faceva capolino, un filtro d’ovatta da sei millimetri.

L’occasione si presenta nell’istante in cui mi chiede d’accendere, senza troppo scompormi gli porgo il mio BIC e poi gli chiedo:

“Scusi le avanzerebbe un filtrino?”

Il suo “Certo come no!” accompagnato dal frugare nel porta tabacco in pelle e seguito da tre cilindretti bianchi che venivano posati sul legno scuro del tavolino, hanno decisamente dato una svolta a quella giornata ignobile.

Spengo quel castigo divino, che avevo aspirato tra una bestemmia e l’altra, e mi metto all’opera per prepararmi una paglia.

Il discorso scorre lesto dal momento in cui gli spiego che mi ha salvato la fumata visto che le sigarette già confezionate non riesco a digerirle, ovviamente la storia del mozzicone gusto “Durex” la tengo per me.

Annuisce spiegandomi che da anni non compra un pacchetto di sigarette e che fuma solo il trinciato.

Così si comincia a discutere su tutti i modi per mantenere umido il tabacco “biondo” notoriamente per sua natura propenso a diventare polvere difficile da fumare, si passa quindi dagli umidificatori in terra cotta, alle scorze di mela, giungendo al posizionamento del pacchetto di tabacco nella parte bassa del frigorifero, fino al rituale di lasciarlo davanti alla finestra ad assorbire l’umidità del primo mattino.

Nel frattempo la scena viene seguita dal solito pubblico, reso muto dal vetro, che a suon di occhiate furtive e sguardi beoti, si gusta un pizzico di realtà in prima fila, espressa dal sodalizio tra due peccaminosi tabagisti che argomentano allegramente, per il tempo concesso dalla lunghezza di una cartina, sul piacere del tabacco appena aperto o sull’aroma del biondissimo virginia associato alla vivacità di un bicchierino di porto.

La vetrina inerte si erge a barriera muta tra un delirio di esistenze, intente a dare un senso ai risparmi acquistando oggetti di dubbia utilità e la comunicatività di due individui intenti a cercare un angolo di quiete in mezzo alla follia delle compere del sabato.

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Esce il disco degli (AllMyFriendzAre)DEAD

Magari siamo piccoli, piccolissimi, insignificanti per la mainstremmeria che opacizza i toni dei naturali colori, ma Autoproduzione Appese se ne fotte e torna al suo amore per la musica incurante delle misure, semmai contassero veramente.

Dopo i CGB, con l’eccezionale Morte di Un Microfono, Autoproduzioni Appese supporta ancora l’uscita di un disco, questa volta assieme a Musica per Organi Caldi, Narcolettica e Speed Up Agency.

Sono i reggini (AllMyFriendzAre)DEAD e l’album è HELLCOME:  11 fottuti brani di rock’n’roll.

La presentazione è affidata a due infuocati live show, sulle due coste dello stretto:

19/08 @ BLUE DAHLIA – Marina di Gioiosa (RC)

28/08 @ HORCHYNUS ORCA – Punta Faro (ME)

INFO BAND: www.myspace.com/amfadead

INFO PRENOTAZIONI DISCO: allaredead@alice.it

Gianni Cusumano – TRE FISCHI

Alla radio dicevano che gli eroi

erano appena scesi in campo.

La temperatura era piacevole.

L’orologio segnava le 4 del pomeriggio

ma si non si sudava mica

in sud Africa.

Fuori dalla fabbrica

invece

c’era abbastanza acqua

da dissetarlo tutto,

quel continente di colore.

Al pranzo

ci pensarono le donne.

Le mogli degli operai

erano le migliori

in fatto di pranzi domenicali.

Quelle che s’erano date veramente da fare

erano impegnate a spartire

decine

di porzioni

di pasta al forno.

Qualcun’altra,

per lo più

donne che non nutrivano alcuna fiducia

nei loro uomini,

se l’era sbrigata

con una semplice

insalata di riso.

Ma si sa,

quando fa caldo

e senza futuro,

ci si accontenta di tutto

pur di mangiare.

Alle birre,

invece,

c’avevano pensato i maschi.

Come da tradizione.

Quando gli eroi

smisero di stonare l’inno nazionale

lo striscione era già bello che steso.

Su, c’era scritto:

“LA NAZIONALE GIOCA. NOI VOGLIAMO LAVORARE.”

Conoscevo poeti

che avrebbero volentieri

venduto l’anima al demonio

per un verso

sincero come quello.

Poi

alla radio

il cronista disse che gli avversari

erano passati in vantaggio.

Lo sportello spalancato

della vecchia Fiat

di un metalmeccanico

rimasto cieco d’un occhio

ripeteva le stesse parole allarmate:

“IL NEMICO E’ SOPRA DI UNO! IL NEMICO E’ SOPRA DI UNO!”

e tutti gli operai

gli si fecero contro,

coprendo ogni centimetro d’aria disponibile

per sentire da vicino

le parole della voce metallica.

Era vero,

si era sotto di uno.

Ma non era poi così importante

se paragonato al futuro.

Alla notizia del vantaggio,

nel cortile della fabbrica,

qualcuno bestemmiò.

Altri,

semplicemente,

tornarono a reggere lo striscione.

Ce n’erano almeno 6 metri da stendere

e servivano UOMINI per farlo.

Poi,

dall’altra parte della strada

oltre il cortile,

come in simultanea

cominciarono a parcheggiare

dei grossi furgoni colorati.

Avevano dei simboli

e dei numeri impressi sulle fiancate

e c’erano antenne e

dispositivi di ricezione d’ogni genere

a tappezzare quei tettucci.

Le donne, frattanto,

avevano già ripulito tutto quanto:

piatti,

bicchieri,

posate,

tutto.

Nemmeno una cicca

avresti trovato

sul cemento

di quel cortile.

Si disse che erano giornalisti,

quelli nei furgoni,

ed era cosa buona

perché sarebbero scesi

a far domande

e risposte era quello che avrebbero trovato.

Intanto,

brutte notizie arrivavano dalla Fiat.

La Nazionale era riuscita a insaccare un punto

– per cui s’era ancora in gioco –

ma l’arbitro aveva annullato tutto.

C’era stata una scorrettezza

nell’azione

e immediatamente

era stata punita.

Molto fiato era stato sprecato.

Non se l’aspettava nessuno,

quella palla aveva davvero bucato la rete.

Anche il vecchio cieco

ci avrebbe scommesso gli occhi.

Ma poco importava:

c’era da andare avanti.

Gli operai stesero lo striscione

e il primo giornalista

corse a piazzare il microfono

sotto quei musi sporchi di sugo.

Poi fu il turno del secondo.

Poi toccò al terzo.

Poi al quarto

e altri ancora ne arrivarono

armati di gelati magnetici,

coi loro registratori digitali

e domande innocue

e c’era solo da rispondere

SI o NO

e molti operai dissero di SI,

e molti altri,

invece,

dissero il contrario.

Nessuna buona

giungeva

nel frattempo

dalla Fiat.

Gli avversari avevano raddoppiato il distacco.

E del padrone della fabbrica

s’erano perse le tracce.

Molti di loro,

molti degli operai

tifavano per la squadra del padrone,

anche se non amava farsi chiamare “padrone”, lui

ma

“Amministratore Delegato”.

In ogni caso

s’era sotto di due

è questo era quanto.

Quando

a una domanda

un operaio non rispose

né SI né NO

la Nazionale

finalmente

andò a segno.

Non era stata una risposta da vincitori

certo

ma la palla era entrata

e aveva fatto tremare la rete

come si doveva.

Si stava perdendo da schiavi,

e qualcuno lo disse anche.

Ma mancavano pochi secondi

e alla fine

l’arbitro fischiò 3 volte.

Fuori!

Gli eroi piansero

stringendo l’erba del prato

di Johannesburg.

Piansero e andarono via.

E una volta entrati negli spogliatoi

gli eroi

piansero ancora.

L’indomani

avrebbero rimesso le mutande in valigia

a sarebbero finalmente tornati a casa

a godersi fiche e miliardi,

dimenticando in fretta tutto.

Poi

i giornalisti

misero in moto i furgoni

e andarono via.

Le mogli degli operai

sonnecchiavano

stese sul piazzale della fabbrica

mentre il vecchi cieco

si faceva riaccompagnare

alla sua macchina.

Qualcuno avrebbe guidato per lui,

come sempre.

Forse non il sindacato,

forse non il partito,

forse non il popolo,

ma uno schifo di cane bastardo,

sicuro,

gli sarebbe toccato.

Lo striscione fu riavvolto

con cura,

magari lo si conservava

per la prossima

cassa integrazione

poi

tutti a casa

a seguire i processi

alla Nazionale.

Intanto

quel giorno

i sacrifici dei padri

morivano al sole

di un estate troppo fredda

per essere

il sud Africa.