Julio Carnera – UN GENIO COME TANTI

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore
aveva pubblicato un mucchio di libri
erano stati tradotti in non so quante lingue
e perfino F. P. prima di raggiungere Hemingway e gli altri
scrisse parole entusiaste sul suo lavoro.

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore,
“la rivelazione dei nostri tempi” aveva detto qualcuno,
uno che, grazie ai suoi libri,
aveva potuto arredare le mensole dello studio
con premi, trofei, medaglie,
e un mucchio d’altri riconoscimenti.

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore,
che sapeva come accendere anche le parole senza vita,
che era stato battezzato alle fiamme dell’inferno
e possedeva perfino una brillante dialettica,
qualcosa in più che faceva di lui un GENIO
in confronto al resto del mondo.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
e che s’era aggiunto la lettera G. di genio
a metà tra il nome e il cognome
iniziò a scrivere sempre meno
e a farsi vedere sempre di più,
specie alla televisione.

E allora?, direte voi, che c’è di male?
Era un genio, è normale che uno com’era lui
andasse a finire in qualche studio televisivo.

Io non lo so se è poi così normale.

Direte che sono uno che dimostra
più anni di quelli che ha veramente
ma penso che in TV
dovrebbero starci solo i pagliacci e le puttane
e, a meno che non debbano per forza intervistarvi
e fare di voi l’ennesimo “caso letterario del mese”,
non dovrebbe essere quello il posto
per gente che scrive.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
pensò che oltre a rispondere a qualche domanda sui suoi libri
avrebbe anche potuto illuminare col suo genio anagrafico
l’oscura coltre d’ignoranza che opprimeva i palinsesti pomeridiani.
Allora aggiunsero un posto sulla poltrona
insieme agli altri opinionisti di mestiere
e ogni giorno, all’ora del caffè,
il genio diceva la sua
su questioni che riguardavano uomini e donne comuni
con problemi troppo comuni per sembrare veri.
Era anche piacevole vederlo seduto lì
mezzo ubriaco, col sigaro stretto tra i denti
che faceva la sua bella figura da genio
messo in mezzo a quelle altre facce
di plastica televisiva.
Si vedeva, insomma, che non apparteneva a quel posto.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
sembrava stare sempre più comodo
seduto su quel divano.
Pensò che non era quello il momento di mandare tutto all’aria
di appiccare un bell’incendio e scappare in sella al suo leone,
specialmente adesso che il cuscino gli aveva preso la forma del culo.
Più appariva sullo schermo
meno parole bruciavano sulle pagine
e via via
col passare dei giorni,
dei mesi,
degli anni
quello che era stato l’ultimo grande genio
della letteratura contemporanea
dovette cedere il posto sulla poltrona
a qualcuno con un indice di gradimento
più alto del suo,
a un altro genio come tanti
e farsi da parte.

Smisi di sentir parlare di quest’uomo
che era stato un grande scrittore.
Non pubblicava nulla da un pezzo
e nemmeno la sua faccia si vedeva più
in giro tra i palinsesti.

Poi,
una sera che me ne stavo lungo
disteso sul letto completamente nudo
dopo aver fatto all’amore con la mia ragazza
sfinito e boccheggiante,
mentre cazzeggio col telecomando
saltando da un canale all’altro
ecco che vedo disegnarsi sullo schermo
il volto del genio in persona.
Non era cambiato molto dall’ultima volta,
solo in viso sembrava più gonfio.
Questa volta aveva una semplice sedia di legno sotto al culo
e insieme a lui, nello studio,
c’erano altri sedicenti scrittori, sceneggiatori, psichiatri, e Dio sa cos’altro.
Si parlava di una donna che aveva ucciso il figlio di pochi anni
e ognuno di quei geni, a turno, diceva la sua a riguardo.
C’era anche una poetessa
che disse d’essersi dovuta chiudere in bagno
una volta
per non soffocare il suo piccolo in fasce
che non la smetteva di strillare.

Comunque sia
alla fine del programma
la presentatrice annunciò la prossima storia
che il genio in persona aveva scritto
appositamente per il tema della serata.
Lui stesso disse qualcosa,
definendolo come
“un racconto basato sulla DICOTOMIA grasso/magro”.
Rise di gusto
prima di aggiungere che
“questo faceva di lui un genio della narrativa contemporanea”.

Mi schiacciai una zanzara sul braccio
e rimasi in attesa del capolavoro.

Allora
una donna cominciò a recitare la storia
su quello che sembrava essere un cartone animato
disegnato apposta per il racconto.
C’era una ragazza troppo magra
che aveva sposato un uomo troppo grasso
e, dopo innumerevoli tentativi,
finalmente lei aveva dato alla luce un bambino
che però era nato con una qualche forma di ritardo
spingendo così la madre della ragazza
a soffocarlo con un cuscino.
Si chiamava “Mamma Mia!”
e il tutto sarà durato non più di 2 minuti.

Spensi la TV e mi avvinghiai al corpo sudato della mia ragazza.

Al buio di quella notte calda,
ringraziai di non essere un genio.

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Pino Amaddeo – IL PROSSIMO AUTUNNO

No… perché… se con questa iniziativa riuscissimo a coinvolgere
anche qualche personaggio della sinistra alternativa,
moderata,
anti-borghese ma con sette conti in banca,
marxista e un po’ cattolica
potremmo anche fare una gran bella figura e guadagnare qualcosina
per la prossima grande iniziativa del prossimo mese… che ne pensate ?
Dite velocemente cosa ne pensate, dai a giro, dite la vostra minchiata.
Quand’ero piccolo avevo paura di mio padre e di chi comandava
dentro i giardini annusavo le margherite e rincorrevo le lucertole
il parroco mi perdonava sempre ma io puntualmente lo fottevo
non ho mai detto un padre nostro o un avemaria come mi ordinava.
Questo mese sarà denso di impegni :
i carciofi, le stragi impunite, le cipolle, tua sorella che mi aspetta,
le pugnette e anche questi ragazzi che con tanto entusiasmo
si avvicinano alla Parola… questo scambio di sensazioni
è fantastico, quasi sovrumano, voi che ne pensate ?
Dite velocemente cosa ne pensate, dai a giro, dite qualche puttanata.
Da ragazzo leggevo e scrivevo poesie proibite, descrivevo il tuo seno
o meglio scrivevo di quanto mi sarebbe piaciuto baciare il tuo seno
ma poi arrivava l’inverno e adoravo stare sotto l’acqua piovana
gli ombrelli mi stavano parecchio sul cazzo e non bestemmiavo
poi ho scoperto che mi rubavano la gioia di vivere.
Potremmo anche coinvolgere quell’associazione
Come si chiama?
Cazzo adesso non ricordo.
Ah, ecco: “Gli amici del rione”.
Sembrano personeche vogliono impegnarsi in questa direzione.
Che ne pensate?
Pensateci e la prossima volta
continueremo… avremo qualche elemento in più.
Sono troppo vecchio per ascoltare bugie premeditate
con un po’ di fortuna vedrò anche il prossimo autunno
foglie sulle mie labbra, sorrisi e botti piene di vino.
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Peppe Porcino – Ho la mappa del piano

Periferia caserma, finestra a blu intermittente

il ventre piatto di Reggio Calabria

faccia buona del padrone

abuso solito e rumore di posate.

La poltrona in simil-pelle al secondo piano vuole la tua pelle

vuole vendicare la sua essenza posticcia

la sua anima tarocca

il suo toupet interiore

ti si attacca addosso fino a strappare i peli:

la vendetta e la ceretta.

Gli alieni esistono, somigliano a piccole lucertole e non hanno telefono

E.T. a chi cazzo telefoni casa?!

Con lenti nuove ho culi di bottiglia

deformazione e professione

immagine e masturbazione.

Ho la mappa del piano ed ho un piano perfetto

La verità è tempo, il dubbio è indispensabile vizio.

Ho coltivato in campi infetti l’amore per la mia malattia.

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Francesco Villari – LA STRAORDINARIA AVVENTURA DI GULLITER



Quando Gulliter raggiunse la costa era giorno. Un uomo enorme. Con i suoi dread lunghi fino al culo, come fossero delle fruste pronte all’uso. Un uomo enorme e stanchissimo. Con quelle mani che avevano pagaiato fino alla spiaggia sulla quale adesso giaceva ricoperto dal sole e dalla sabbia Italyota. Si svegliò qualche ora dopo e scoprì di star bene. Quel bene che ti convince di essere ancora vivo nonostante tutto, che ti convince di essere ancora in grado di ricordare il motivo per il quale hai deciso di voler correre quel rischio.
Riprese le forze, Gulliter si incamminò tra gli alberi, distanti qualche centinaio di metri oltre la spiaggia. C’erano delle tracce tra le piante, dei sentieri naturali che davano come l’impressione che ci fosse già passato qualcuno o come l’impressione che quel qualcuno avesse preparato una trappola.
Gulliter si allontanò, con circospezione. Brattolaso, incaricato dal signore delle bratte al comando dell’isola, era un uomo furbo. Costruiva tutto quel che riteneva fosse da costruire secondo una rigida visione delle cose: non deve cambiare niente! La sua opera era una ricostruzione della realtà che, sfigurata dall’inesorabile trascorrere del tempo e dall’imprevedibilità della natura, andava riproposta in maniera identica a come era stato prima.
Costruiva una bella capanna dove c’era stata una bella capanna. E quando anche questa bella capanna sarebbe crollata – destino infame – la avrebbe ricostruita identica. Secondo le leggi antisismiche e antisommossa, controllava la tenuta dei pensieri delle bratte in ugual maniera. D’altronde era facile: era tutto scritto nelle rune di Brattasconi, l’immenso mezzosangue nano, signore e padrone delle bratte e di Brattolaso.
Il capellone Gulliter conosceva bene Brattasconi: lo aveva voluto lui nel Mitran. Lo aveva personalmente arruolato in quello squadrone della morte capace di sconvolgere il genere umano dedito alla rincorsa della palla prima che finisca nella rete. Per conto del mezzosangue nano, aveva anche ucciso gli hackers che utilizzavano l’equivoca dicitura “palla nella rete” per adattare i sistemi della comunicazione Infernet al programma di liberalizzazione delle informazioni chiamato Zeroazero: nessuna palla sarebbe dovuta entrare in rete ed il pareggio sarebbe stato il risultato democraticamente riconosciuto ed accettato, un risultato libero dai tagli disposti dalle rune. “Stronzate!”, pensavano in tanti, “è gente che va uccisa e basta perché contravvengono a quanto il nostro ruolo di controllori prevede e dispone”.
L’enorme uomo non più stanco, l’enorme Gulliter, non ne sentiva il rimorso. Ma pensare alla possibile esistenza dei rimorsi acuì il suo dolore, della ferita del suo cuore, perché non si finge nell’amore: doveva uccidere Brattasconi perché si era scopato sua moglie durante una domenica di battaglia sul campo.
Non poteva pensare che una donna – la sua donna – fosse stata vittima della violenza di un mezzosangue nano, per quanto divino si pensava potesse essere. Aveva nuotato tutta la notte. aveva ripassato il piano mille volte tra una bracciata e l’altra. Doveva colpire per primo Brattolaso, che dopo la folle corsa del nano dentro sua moglie, aveva utilizzato tutti fondi per ricostruirle l’imene e rifarlo identico a come era prima del loro primo incontro.
Una verginità fasulla, un amore alla deriva, un cazzo di nano. Non aveva mai pensato a quanto fosse cattivo il mondo delle bratte: infimo e goliardico, accattivante e traditore, distinto e merdoso. Un mondo devastato dei missili aria-aria e ricostruito su concetti terra-terra. Ma Gulliter, enorme e cornuto, voleva vendicarsi.
Cercò la finestra della villa sulla collina. Trovò Brattolaso intento ad abbronzarsi sotto la luce del sole dagli occhi di una ragazza. Era rilassato. A breve sarebbe stato nero. Gulliter si sfiorò i dread prima di sganciare il primo bottone ed abbassarsi i pantaloni. Poi cominciò a lavorare di mano. Con piacere. Una sorta di onda anomala sconvolse le villa, le case e le capanne, spense la luce del sole dagli occhi di una ragazza e affogò l’incaricato. Mille bratte piansero il morto. Mille bratte morirono a loro volta. Altre mille bratte non si accorsero di niente.
“Mors tua, mors tua”, diceva quello.
“Mors tua, vita mea”, era quello a cui pensava costantemente Brattasconi, il maledetto. Nel silenzio del sonno, Gulliter provò a raggiungerlo fin quando… fin quando… il nano lo prese da dietro e cominciò a sforbiciargli via tutti i dread, uno alla volta. Cime, ciuffi, nodi che il bastardo avrebbe solo potuto comprare, volarono per tutta la stanza. Alla ricerca della gola, il nano fece un errore di superbia: considerò troppo lungo il suo braccio che non stringeva più la testa del vendicativo. E poi, non erano rimasti molti appigli.

Gulliter potè finalmente prenderlo tra le braccia. E lo schiaffeggiò. Lo mise a sedere, mentre a stento tratteneva le lacrime. Pianse, il maledetto. E quando pianse, Gulliter capì quanto miserevoli riescono ad essere alcuni personaggi che si dipingono come eroi, statisti, dittatori, stronzi. “Anche gli stronzi piangono”, pensò.
Inoffensivo, Brattasconi era legato alla sedia con del nastro isolante che gli fermava i polsi e le caviglie. Poteva parlare ma non lo faceva, il codardo. Gulliter, enorme, cornuto e davvero stanchissimo, abbassò la patta dei pantaloni e decise di pisciare sulla testa del nano. Aveva letto da qualche parte che era allergico all’ammoniaca.
“Ecco qui, cesso. Ora dimmi: da dove si tira l’acqua?”
Quello non c’era scritto sulla rivista. Fottuta legge sulla privacy.

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Hasael – IKEA (SMOKING’S ROOM)

Esistono situazioni, nelle quali anche l’apparentemente banale, diviene evento.

Un po’ come quando ti parte un rutto al ristorante, voglio dire, cosa v’è di più banale dell’espulsione di gas prodotti dalla digestione?

Eppure il luogo o la circostanza creano l’evento, che si ammanta poi di svariate tonalità, dal fucsia del poveraccio dal rutto incontrollato, al cianotico del vicino di tavolo che ridendo si trozza con le ostriche, tutto sommato se la cosa va fino in fondo è una morte onorevole rispetto a chi si intossica col pollo del supermercato!

Ad ogni modo ci sono situazioni in cui l’umanità tracima, erompendo dal ristretto spazio biologico in cui il corpo a stento la contiene, fuoriesce dagli sguardi, dagli ammiccamenti, da una sequela di gesti, posture, bisbigli e mormorii e va ad infrangersi contro un vetro.

Al di qua del vetro ci sono io che tranquillo accendo un mozzicone di sigaretta, residuo dell’elaborazione artigianale di un tubetto al THC andato felicemente in fumo qualche settimana prima.

Il vetro racchiude uno spazio di circa otto metri quadri, tre tavolini in legno su cui troneggiano dei grossi posacenere, il vetro sostanzialmente racchiude l’isola del fumatore nell’affollato self-service dell’IKEA. È quasi una vetrina, una sorta di esibizione dell’insano, del vizio, del cattivo esempio esposto al pubblico ludibrio, c’è della teatralità nel rapporto tra il fumatore e il passante affaccendato col carrellino portavivande o il pasteggiante intento ad ingozzarsi di polpettine e salmone crudo.

La realtà è messa a nudo, palesata in un gesto banale come quello di accendersi una sigaretta, la barriera vitrea isola dalle esalazioni nicotiniche, così che si possa osservare la scena in totale sicurezza, e gli sguardi furtivi o insistenti che siano, guardano la realtà da dietro ad un vetro, spettacolo alquanto consueto per chi è abituato a sbocconcellare la realtà in monoporzioni sparate da uno schermo al plasma, il reale grazie alla vitrea mediazione si tinge di surreale, si ammanta dei connotati dello scenografico, del comico.

Immerso in questi pensieri digrignavo i denti per via del saporaccio di quella mezza sigaretta che aveva albergato nella mia giberna per due settimane, assorbendone tutti gli aromi e conquistando un sapore che alle note arroganti di cartone, aggiungevano quelle raccapriccianti di un preservativo schizzato fuori dal suo astuccio in alluminio, che se n’era poi andato in giro a spargere il suo lubrificante sul Moleskine da 15 stramaledetti euro.

Il momento meditabondo si arresta nel momento in cui entra un tipo che aveva tra le dita un piccolo miracolo, avvolto in gomma arabica e dal quale faceva capolino, un filtro d’ovatta da sei millimetri.

L’occasione si presenta nell’istante in cui mi chiede d’accendere, senza troppo scompormi gli porgo il mio BIC e poi gli chiedo:

“Scusi le avanzerebbe un filtrino?”

Il suo “Certo come no!” accompagnato dal frugare nel porta tabacco in pelle e seguito da tre cilindretti bianchi che venivano posati sul legno scuro del tavolino, hanno decisamente dato una svolta a quella giornata ignobile.

Spengo quel castigo divino, che avevo aspirato tra una bestemmia e l’altra, e mi metto all’opera per prepararmi una paglia.

Il discorso scorre lesto dal momento in cui gli spiego che mi ha salvato la fumata visto che le sigarette già confezionate non riesco a digerirle, ovviamente la storia del mozzicone gusto “Durex” la tengo per me.

Annuisce spiegandomi che da anni non compra un pacchetto di sigarette e che fuma solo il trinciato.

Così si comincia a discutere su tutti i modi per mantenere umido il tabacco “biondo” notoriamente per sua natura propenso a diventare polvere difficile da fumare, si passa quindi dagli umidificatori in terra cotta, alle scorze di mela, giungendo al posizionamento del pacchetto di tabacco nella parte bassa del frigorifero, fino al rituale di lasciarlo davanti alla finestra ad assorbire l’umidità del primo mattino.

Nel frattempo la scena viene seguita dal solito pubblico, reso muto dal vetro, che a suon di occhiate furtive e sguardi beoti, si gusta un pizzico di realtà in prima fila, espressa dal sodalizio tra due peccaminosi tabagisti che argomentano allegramente, per il tempo concesso dalla lunghezza di una cartina, sul piacere del tabacco appena aperto o sull’aroma del biondissimo virginia associato alla vivacità di un bicchierino di porto.

La vetrina inerte si erge a barriera muta tra un delirio di esistenze, intente a dare un senso ai risparmi acquistando oggetti di dubbia utilità e la comunicatività di due individui intenti a cercare un angolo di quiete in mezzo alla follia delle compere del sabato.

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Gianni Cusumano – TRE FISCHI

Alla radio dicevano che gli eroi

erano appena scesi in campo.

La temperatura era piacevole.

L’orologio segnava le 4 del pomeriggio

ma si non si sudava mica

in sud Africa.

Fuori dalla fabbrica

invece

c’era abbastanza acqua

da dissetarlo tutto,

quel continente di colore.

Al pranzo

ci pensarono le donne.

Le mogli degli operai

erano le migliori

in fatto di pranzi domenicali.

Quelle che s’erano date veramente da fare

erano impegnate a spartire

decine

di porzioni

di pasta al forno.

Qualcun’altra,

per lo più

donne che non nutrivano alcuna fiducia

nei loro uomini,

se l’era sbrigata

con una semplice

insalata di riso.

Ma si sa,

quando fa caldo

e senza futuro,

ci si accontenta di tutto

pur di mangiare.

Alle birre,

invece,

c’avevano pensato i maschi.

Come da tradizione.

Quando gli eroi

smisero di stonare l’inno nazionale

lo striscione era già bello che steso.

Su, c’era scritto:

“LA NAZIONALE GIOCA. NOI VOGLIAMO LAVORARE.”

Conoscevo poeti

che avrebbero volentieri

venduto l’anima al demonio

per un verso

sincero come quello.

Poi

alla radio

il cronista disse che gli avversari

erano passati in vantaggio.

Lo sportello spalancato

della vecchia Fiat

di un metalmeccanico

rimasto cieco d’un occhio

ripeteva le stesse parole allarmate:

“IL NEMICO E’ SOPRA DI UNO! IL NEMICO E’ SOPRA DI UNO!”

e tutti gli operai

gli si fecero contro,

coprendo ogni centimetro d’aria disponibile

per sentire da vicino

le parole della voce metallica.

Era vero,

si era sotto di uno.

Ma non era poi così importante

se paragonato al futuro.

Alla notizia del vantaggio,

nel cortile della fabbrica,

qualcuno bestemmiò.

Altri,

semplicemente,

tornarono a reggere lo striscione.

Ce n’erano almeno 6 metri da stendere

e servivano UOMINI per farlo.

Poi,

dall’altra parte della strada

oltre il cortile,

come in simultanea

cominciarono a parcheggiare

dei grossi furgoni colorati.

Avevano dei simboli

e dei numeri impressi sulle fiancate

e c’erano antenne e

dispositivi di ricezione d’ogni genere

a tappezzare quei tettucci.

Le donne, frattanto,

avevano già ripulito tutto quanto:

piatti,

bicchieri,

posate,

tutto.

Nemmeno una cicca

avresti trovato

sul cemento

di quel cortile.

Si disse che erano giornalisti,

quelli nei furgoni,

ed era cosa buona

perché sarebbero scesi

a far domande

e risposte era quello che avrebbero trovato.

Intanto,

brutte notizie arrivavano dalla Fiat.

La Nazionale era riuscita a insaccare un punto

– per cui s’era ancora in gioco –

ma l’arbitro aveva annullato tutto.

C’era stata una scorrettezza

nell’azione

e immediatamente

era stata punita.

Molto fiato era stato sprecato.

Non se l’aspettava nessuno,

quella palla aveva davvero bucato la rete.

Anche il vecchio cieco

ci avrebbe scommesso gli occhi.

Ma poco importava:

c’era da andare avanti.

Gli operai stesero lo striscione

e il primo giornalista

corse a piazzare il microfono

sotto quei musi sporchi di sugo.

Poi fu il turno del secondo.

Poi toccò al terzo.

Poi al quarto

e altri ancora ne arrivarono

armati di gelati magnetici,

coi loro registratori digitali

e domande innocue

e c’era solo da rispondere

SI o NO

e molti operai dissero di SI,

e molti altri,

invece,

dissero il contrario.

Nessuna buona

giungeva

nel frattempo

dalla Fiat.

Gli avversari avevano raddoppiato il distacco.

E del padrone della fabbrica

s’erano perse le tracce.

Molti di loro,

molti degli operai

tifavano per la squadra del padrone,

anche se non amava farsi chiamare “padrone”, lui

ma

“Amministratore Delegato”.

In ogni caso

s’era sotto di due

è questo era quanto.

Quando

a una domanda

un operaio non rispose

né SI né NO

la Nazionale

finalmente

andò a segno.

Non era stata una risposta da vincitori

certo

ma la palla era entrata

e aveva fatto tremare la rete

come si doveva.

Si stava perdendo da schiavi,

e qualcuno lo disse anche.

Ma mancavano pochi secondi

e alla fine

l’arbitro fischiò 3 volte.

Fuori!

Gli eroi piansero

stringendo l’erba del prato

di Johannesburg.

Piansero e andarono via.

E una volta entrati negli spogliatoi

gli eroi

piansero ancora.

L’indomani

avrebbero rimesso le mutande in valigia

a sarebbero finalmente tornati a casa

a godersi fiche e miliardi,

dimenticando in fretta tutto.

Poi

i giornalisti

misero in moto i furgoni

e andarono via.

Le mogli degli operai

sonnecchiavano

stese sul piazzale della fabbrica

mentre il vecchi cieco

si faceva riaccompagnare

alla sua macchina.

Qualcuno avrebbe guidato per lui,

come sempre.

Forse non il sindacato,

forse non il partito,

forse non il popolo,

ma uno schifo di cane bastardo,

sicuro,

gli sarebbe toccato.

Lo striscione fu riavvolto

con cura,

magari lo si conservava

per la prossima

cassa integrazione

poi

tutti a casa

a seguire i processi

alla Nazionale.

Intanto

quel giorno

i sacrifici dei padri

morivano al sole

di un estate troppo fredda

per essere

il sud Africa.

Francesco Villari – IOLOZEROELAZAVORRA

 

 

Era il secondo giorno pari della quarta
settimana del mese. Mi sentivo solo, febbricitante e mancante la promessa di
riprendermi fatta ai miei genitori che mi avrebbero portato, finalmente, allo
“ZOO”. Millecinquecentododici presenze la settimana prima e le migliori
premesse al week-end evento. Avevano allestito la gabbia centrale, quella
enorme, quella all’interno della quale King Kong avrebbe potuto completare le
figure olimpioniche di una qualsiasi quattordicenne rumena danzante
artisticamente. Non vedevo l’ora.

In effetti avevo annebbiato il mio corpo al
punto che l’Aerosol mi avrebbe utilizzato a ciclo continuo e ripetuto come alle
cinque del pomeriggio si adopera la teiera. Un semplice corpo di passaggio. Non
che io avessi di preciso qualcosa contro… ma avevano ingabbiato lo “ZERO”. Non
che mi dispiacessero i numeri certo. Uno, perché altrimenti non avrei mai
potuto sognare di fare il ragioniere. Due, perché non mi sarei potuto
commuovere leggendo la notizia del settantatreenne che spendendo cinque eurus
(taglio classico) aveva grattato la gobba alla fortuna che sazia e lussuriosa
aveva ripagato con una mancia milionaria assolutamente utilizzabile per poter
curare il figlio di non so cosa perché piangendo bagnai il foglio che scomparve
ai miei occhi. Non avevo i novanta centesimi necessari a comprarne un’altra
copia. Comunque se li avessi avuti li avrei utilizzati per sapere cosa fosse
successo oggi sul giornale di domani.

Avevano finalmente ingabbiato lo Zero!! Avevano
stretto attorno a lui le corde in infrarossi e lasciato che lui, dormiente,
potesse continuare a sognare e che loro, rielaborati leonardiani vincenti,
potessero colpirlo nel suo punto debole: il buco.

Non so se sapete di cosa possa essere fatto
lo Zero, ma quando capii che alla spiegazione dei ben informati non si poteva
dar credito, mi irrigidii e decisi, convinto di me, che lo zero era fatto di
nulla.

Io ero fatto di medicinali. Lo Zero era fatto
di nulla. L’azzardo sarebbe stato voler curare il nulla con i medicinali, ma
credo che questa sia già una pratica adottata e sarebbe da barbari accanirsi
con chi ha trovato una famiglia che gli vuole bene.

Ebbene, si! Mi coprii a dovere tutta la notte
ed attesi il riscontro del termometro che per me, irrilevante futuro
ragioniere, segnava 37.3 ma avendo meno di 14 anni si toglie uno 0.5 quindi
avevo un bel 36.8. “Andiamo a vedere lo Zero!!!”.

Non mi interessava la fila. Non mi
interessava che avessero raddoppiato l’incasso, i conti li avrei fatti in
futuro. Non mi interessava che mio padre avesse pagato per me un intero e non
un ridotto. Volevo vedere lo Zero. E lo Zero vidi, ma da lontano. Cercai di
aprire una breccia tra le braccia dei tremilaventiquattro presenti e riuscii a
sfondare tra la ventesima e la centotreesima. Era fermo. Era pacato. Era
dimesso. Era probabilmente imbottito di inutili medicanti a corollario di una
dieta fatta di silicone a chiusura del buco. Non riuscivo a parlare per
l’estrema emozione nel tentare di comprendere i motivi che portavano
seimilaquarantotto mani ad applaudire al nulla. Il nulla, capisci!

La contemplazione del nulla che è
fondamentale alla risoluzione di mille e mille e mille  problematiche e che probabilmente serve anche
alla riuscita di uno zabaione frustato da tremilaventiquattro coppie e
coppiette avide di nulla. Io invece ero avido di Zero. Mio padre e mia madre
erano avidi di me che mi ero perso.

Lo Zero sbadigliò come se dal lungo sonno si
potesse emergere con una lunga boccata d’aria. Lo Zero sbadigliò e si aprì una
falla. Dalla ferita, il risucchio dell’aria era diventato vitale per lo Zero
oramai famelico. E dalla bocca ancora una concentrica ricerca di aria, come un
vorticoso tifone che implode. E seimilaquarantotto occhi strabuzzati non tanto
per la meraviglia alla quale assistevano ma per la voracità del risucchio. Ed
io, perfettamente cosciente che lo Zero fosse fatto di nulla, saldamente
piombato a terra dalla zavorra che coprendomi quasi per intero aveva delle
dimensioni pari a centocinquantasette centimetri. Io e i miei quattordici anni
non avremmo ceduto alla forza dello Zero. Vidi l’evento promesso
materializzarsi attraverso la sparizione di tutto quanto possibile fagocitato
dal nulla.

Altro che “Z” di Zorro. La “Z” di Zero.

A Zero sazio rimase il nulla. Ed io. E la
zavorra. I miei quattordici anni. La certezza di poterne compiere quindici. Il
mio futuro da ragioniere equilibrista dei numeri che per chiudere il cerchio
sugli eventi avrebbe dovuto tirare una linea alla quadratura… e ripartire da
Zero.

 

 

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Gianni Cusumano – COSTO OPPORTUNITA’

 

La luna s’ingrassava del cielo

quando finii la birra.

 

Quando

dall’altra parte del continente,

Amoddio asfaltava nuove strade maledette

per nostro Signore,

e io uscii sperando nell’ultimo bar aperto,

passando accanto la carcassa di un gatto stecchito,

respirando lo zolfo dei marciapiedi,

evitando puttane e bracconieri,

contando gli spiccioli in tasca,

maledicendomi prima del tempo.

 

Quando il sangue impazzito di un finocchio pugliese

cominciava a ribollirmi di speranza le vene,

e respiravo limone dalla bocca di una bottiglia gelata

e forse

una nuova storia era tutta da scrivere,

la luna s’ingrassava del cielo.

 

Finii la birra,

quando in centinaia dopo Cristo

erano morti e risorti

e avevano venduti i loro libri,

i loro dischi,

i loro quadri,

lasciandoci ai nostri costi opportunità.

 

Quando Amoddio andò a pisciare

dall’altra parte del continente,

prestandomi alle braccia grasse

di una vecchia vergine bionda e la sua ugola dorata,

avvolto di luce fredda fin dentro il buco del culo,

e, forse,

un’altra storia del cazzo

era davvero tutta da scrivere,

la luna s’ingrassava del cielo

e io finii la birra.

 

Aldo La Serpe – LA PREGHIERA DI PELLI

 
 
 
 

Cerchiamo
di rendere grazie alla terra, prima dell’apparizione dei segni di Is e dei miei
livelli di colpevolezza: l’aurora amara, i pastori sodomiti sui prati, i
fanciulli sonnambuli in un macabro Sabbath operando la catramiscenza; i quali
atti ci allontanano dall’Atto di Contrizione.

Prima
di fare voto diamo una quotidiana santificazione alle nostre esistenze
circondate maggiormente dai mali dove siamo caduti e dove veniamo colpiti a più
riprese.

Siamo
degni di ascoltare una preghiera?

Di
partorirne qualcuna, aspirando ai frutti minori?

Ma
non tardiamo, può arrivare…

Che
sciocco! Lui è sempre con noi, con la sua sinfonia di dolori ad aggravare i
movimenti funebri,

c’è
una brutta aria, è il collasso del Sud, non trova guarigione.

Allora
cominciamo sin da adesso a cambiare i nostri appetiti ed a fortificarci con la
penitenza, pariamo lentamente? Con caratteri di fuoco? Regaliamo questa
soddisfazione minima a Lui?

Dopo
aver nuovamente toccato il fondo, ecco che si ritorna all’esistenza ma, senza
effetti, senza luoghi di memorie.

Dobbiamo
spiegare chi siamo per un possibile aiuto divino? Descrivere la nostra condanna
malgrado non sappiamo perché siamo stati adunati?

Chi
è stato quaggiù per poter narrare le mie vicende?

Sono
cittadino del fuoco ed ho voglia di nascondermi dentro una rosa e vivermi il
profumo, vorrei amare tutto col cuore ma sono senza gloria, senza onore, quanto
alla salute, ecco che risale ma, per scendere sull’ago di una fiamma.

Oh,
se riuscissi a ricordare un’orazione o a rimembrare il sangue che m’ha
succhiato quando, da vampiro, veniva a farmi visita sfondando la finestra, i venti
d’argento, le colonne di vento, le opere marine, le dolci navigazioni sul
bacino, il fianco del sole quando bruciava più del centro.

Oh,
sindaco azzurro, il mio mal di tutto mi disorienta, il male muscoloso sputa
sangue nero.

Non
voglio più contatti ravvicinati con il caro Lui ma pensieri di mare; ha quasi
preso possesso del mio cuore, è un vero sacerdote delle anime perse, le sue
mosse sono esemplari in una sala popolare.

Ho
in me una volontà tesa dentro un laboratorio violento e son disposto a far di
peggio: lo sterminio, liberami Signore da queste nuove dirigenze, dammi
continenza e castità, uno stampo d’epoca benedetto, uno stucco dorato, dei
colori cristallini, un disco di luce dentro la sala, a riunirci.

Voglio
dirti cos’è l’amore:

è prendere in braccio la mia ragazza e non sentir peso.

 

 

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DIALOGO – “Saggezza alle 7 e 25. Ovvero: obiezione di coscienza e teoria del caos”

 

 

PERSONAGGI: EMILIO STRATI, ELMORE PENOISE

Elmore scrive:
porca troia secondo te quando incomincia la vita?

Emilio scrive:
a 65 anni

Elmore scrive:
uahuahauhaua

Emilio scrive:
per chi ci arriva

Elmore scrive:
no intendevo: la Vita

Emilio scrive:
eh, avevo capito

Elmore scrive:
prima o dopo del concepimento? Un bel rompicapo, studiavo ste cose

Emilio scrive:
ah in quel senso! La vita biologica la hanno pure le piante eppure non
sono tutelate dal diritto se non intese come proprietà, giusto capo?

Elmore scrive:
uhm ecco… esatto

Emilio scrive:
io credo che… mah..sarebbe lungo e poi cmq rimarrebbe solo una mia
opinione..anche se tu lo avevi chiesto appunto per questo

Elmore scrive:
Si.
Anche gli animali alla fine sono simil piante (anche se c’è un reato per
maltrattamento uccisione di animali..però è blando)

Emilio scrive:
allora cosa ci differenzia dagli animali? La capacità di giudizio… ma un
bambino non la ha, allora non va cercata filosoficamente la risposta ma
scientificamente, ergo la vita comincia nell’utero.

Elmore scrive:
ok il concepito è vita e in effetti si può essere d’accordo, però è vero
anche che l’embrione può salvare altre vite… e allora cazzo… quanto è
eticamente giusto sfruttarlo?

Emilio scrive:
si infatti… però secondo me si parte dal presupposto che la vita va
tutelata, non è giusto infatti… eticamente non lo è, perchè si mette
sulla stessa bilancia una vita acquisita ed una vita non ancora vissuta
ma ancora in potenziale.

Elmore scrive:
Un’altra cosa però è vera: se l’embrione è vita ma dopo la nascita avrà
una vita di merda quanto è giusto farlo nascere? Intendo, malformato o
malato e magari con un’aspettativa di pochi anni di vita.

Emilio scrive:
si capisco, è spinosa la cosa, in fondo è sempre una scelta della madre
che potrebbe considerare la vita del nascituro come una sua proprietà e
disporne a piacimento

Elmore scrive:
forse bisogna astrarsi dal diritto e spostare tutto su un piano
filosofico anche in questo..cioè sarebbe più giusto consentire a chi non
crede che l’ebrione sia vita e farne ciò che vuole pur restando
dell’idea che è eticamente sbagliato, come per l’aborto, io non sono
d’accordo, ma è giusto che chi non ha la stessa visione della vita che
ho io possa praticarlo. Quando il diritto si confonde con l’etica il
risultato è aberrante (e quasi sempre c’è un hitler o un mussolini di
mezzo) sei d’accordo?

Emilio scrive:
assolutamente, in fondo a cosa porta la modernità se non un benessere
materiale e fisico migliore rispetto all’antico, le cure che ci sono
adesso prolungano la vita anche di parecchi anni a persone che qualche
decennio fa avrebbero vissuto pochissimo, ci sarebbero anche altri
esempi… alcune cose però atte a contrastare un effetto naturale come la
fine dell’individuo da un punto di vista estremizzato si potrebbero
vedere come il tentativo di sfuggire alle logiche naturali, se le
malattie esistono, metto 10000 virgolette, c’è un motivo naturale e
biologico. Ecco perché anche io sono contrario all’aborto come sono
contrario alle tinture per capelli.. estremizzando il tutto ovviamente.

Elmore scrive:
sì questo è vero, da un punto di vista teorico è perfetto, certo che
tradurlo in legge è impossibile perchè sono convinzioni che hanno
valenza solo nella sfera individuale, cioè se decidi tu per te va bene.

Emilio scrive:
si, infatti come dici tu, la legge dovrebbe permettere a chi vuole
comportarsi diversamente riguardo al problema di poterlo fare.

Elmore scrive:
poi diventa un bordello facendo la legge, alla fine tutte le questioni
etiche
in cui non c’è un diretto e manifesto coinvolgimento materiale devono
essere lasciate al "libero arbitrio"… però cazzo… alla fine è bordello
lo stesso!
che differenza c’è tra aborto e omicidio a sto punto?!

Emilio scrive:
infatti, come dicevo prima, o si considera il feto come parte
dell’individuo madre e non come un individuo a sè, allora ognuno fa il
cazzo che vuole, situazione eticamente inaccettabile…

Elmore scrive:
guarda dal punto di vista della corte cost. quando si è pronunciata
sulla legge sull’aborto ha detto questa cosa: la legge non è contraria a
costituzione (che considera la vita inviolabile) perchè consentendo
l’aborto lo fa effettuando un bilanciamento di valori, quello della
madre e quello del concepito in effetti se ti leggi il testo della legge
è molto restrittivo

Emilio scrive:
dovrebbe essere una legge come nelle tribù o nelle società antiche
purtroppo si finisce per sconfinare nel "credo" che se si consdiera la
vita come qualcosa che non appartiene nemmeno a chi la porta ma viene
donata allora non esisterebbe l’aborto nè l’eutanasia etc

Elmore scrive:
. Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta
giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione
della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio
pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo
stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o
familiari, o alle circostanze in cui e’ avvenuto il concepimento

Emilio scrive:
e sarebbe giusto mettere allal pari la vita della madre e quella del
neonato in pratica è legittimo un aborto che mette a rischio la vita
della madre

Elmore scrive:
L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni,
puo’ essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un
grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati
processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o
malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la
salute fisica o psichica della donna.

Emilio scrive:
esatto
quindi si fa prevalere la vita formata e cosciente dell’individuo madre
su quella non formata e socielamente non integrata del nascituro

Elmore scrive:
sì praticamente sì
ci sono i due casi art 4 entro i 90gg, art 6 (più restrittivo) dopo

Emilio scrive:
perchè come ti dicevo prima le leggi sono fatte in un’ottica di società e
non sono viste come dogmi

Elmore scrive:
dice la corte cost che tra una vita in divenire e una vita già divenuta
bisogna bilanciare i due valori
è un problema che si può superare solo regolamentando il più possibile

Emilio scrive:
cioè esaminando caso per caso, una legge assoluta non ci potrà mai
essere

Elmore scrive:
non c’è soluzione, ci sarà chi ti dice con argomenti altrettanto
inattacabili che un cosetto non formato non è vita

Emilio scrive:
infatti non se ne uscirebbe

Elmore scrive:
io non ce li ho perchè non ne sono convinto
secondo me infatti il discorso diventa sterile quando lo si pone sul io
penso che è vita io no
e questo è l’errore della legge 40 sulla fecondazione assistita
che si è schierata
ed ha scatenato i favorevoli ed i contrari fomentando solo sciarre

Emilio scrive:
alla fine secondo me, sta sempre al singolo.. se c’è o non c’è la legge,
purtroppo per la fecondazione poi
il discorso è diverso ma se una donna vuole abortire anche fuori dai
tempi credi che non trova il medico che lo fa? su compenso e in nero
ovviamente
però il discorso legislativo è diverso certo

Elmore scrive:
alla fine se ci pensi ci sta una legge che permetta l’aborto e una che
punisce l’omicidio..chi vuole tutelare una vita in divenire non può non
voler tutelata una vita divenuta
beh quello è omicidio però

Emilio scrive:
si è un contrasto

Elmore scrive:
se lo beccano

Emilio scrive:
una vita potenzialmente importante, ecco perchè vedi… secondo me non
si può prescindere da questo
se credi o non credi, ogni cosa influenza il risultato
anche se uno crede alla teoria del caos, magari quel bambino non nato
avrebbe sconfitto il cancro che ne so

Elmore scrive:
hehehee

Emilio scrive:
o magari sarebbe diventato il nuovo hitler, non si può mai sapere..e
secondo me non sta a noi decidere

Elmore scrive:
forse è tutto su un piano individualista che bisogna spostarlo

Emilio scrive:
un pizzico di ..chiamiamola spiritualità..non lo so non guasterebbe in
certi contesti

Elmore scrive:
il cristianesimo e anche il marxismo ci hanno inculcato che quello che è
giusto è assolutamente giusto
io sono individualista in questi casi
ovviamente quando la sposti su un piano materiale
sono un comunistaccio bastardo

Emilio scrive:
eheheh, ma cmq se ci pensi un bambino è umanamente e legalmente sotto la
tutela dei genitori
non prende decisioni per sè

Elmore scrive:
perchè lì è diverso sul piano materiale

vero

Emilio scrive:
nessuno di noi ha scelto di venire al mondo
è stata uan scelta di altre persone

Elmore scrive:
in effetti è vero

Emilio scrive:
però una volta fatto il danno… diciamo
ok..c’è
punto
non hai scelto tu di nascere

Elmore scrive:
ti piaciu a bicicletta..

Emilio scrive:
ho scelto io e ormai che ci sei non posso decidere di non farti nascere

Elmore scrive:

Emilio scrive:
poi il caso specifico è da valutare certo malattie etc

Elmore scrive:
però il punto è sul ci sei perchè per alcuni non ci sei a livello
embrionale in effetti non è detto che l’embrione si sviluppi molti
muoiono

Emilio scrive:
l’embrione in se è tessuto biologico ma non è un individuo un feto già è
diverso
poi non sono medico quindi non ti posso dire

Elmore scrive:

vero

Emilio scrive:
ci sono anche casi

Elmore scrive:
un feto è diverso
decisamente sì

Emilio scrive:
mah.. cmq, non so…

Elmore scrive:
boh… sono in fase di farmi un’idea ma è ancora lontana, per ora vaiu e
mangiu

Emilio scrive:
ok, ci sentiamo piu tardi

Elmore scrive:
ok.. ciauu

Emilio scrive:
ciauz